Cronache Stories

Cronache di spogliatoio

Calcio, cuore, passione, orgoglio, appartenenza. In un'unica parola: emozioni. read less
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Episodi

Alessandro Del Piero ||| Storia di una bandiera
26-02-2024
Alessandro Del Piero ||| Storia di una bandiera
Stiamo dominando. Palo di Gilardino, traversa di Zambrotta: tutto nel giro di 90 secondi. Stiamo schiacciando i tedeschi in casa loro, a Dortmund, dove la Germania non ha mai perso nella sua storia, e Lippi decide che è il momento di osare: al minuto 104 fuori Perrotta e dentro Alex Del Piero, la quarta punta insieme a Gilardino, Totti e Iaquinta. Del Piero si sistema subito nella sua zona preferita, sull'esterno sinistro, e aspetta fiducioso che il pallone... arrivi. E siccome in mezzo al campo detta legge Andrea Pirlo, il pallone arriva. Sono le stesse zolle dello stesso prato su cui undici anni prima, il 13 settembre 1995, il 20enne Alex da San Vendemiano aveva segnato il primo gol “alla Del Piero” su suolo internazionale, in faccia al numero 3 del Borussia, uno dei più irriducibili mastini in circolazione in Europa: Jurgen Kohler, ex juventino. E il tavolo è apparecchiato per ripetere la stessa giocata, in faccia a un altro numero 3, Arne Friedrich, tra l'altro molto meno spigoloso di Kohler. Ma sono passati undici anni, Del Piero ha 31 anni, è entrato da meno di due minuti ma gli manca lo spunto, la freschezza nelle gambe, non riesce nemmeno a tirare. Troppi muscoli? Troppa polvere? Forse come sempre ha ragione Fabio Capello, che ormai ne ha fatto una riserva della Juventus, solo 17 partite da titolare nel campionato appena concluso, e poi panchine su panchine? Forse Alex Del Piero deve rassegnarsi all'autunno? Poche ore prima, nel tardo pomeriggio di quello stesso 4 luglio 2006, è andata in scena la requisitoria dell'accusa nel processo di primo grado a Calciopoli: e il procuratore federale Stefano Palazzi ha chiesto che la Juventus venga retrocessa in serie C1, con sei punti di penalizzazione. Si respira l'aria pesantissima della fine di un'era, e il dolore e la fatica di quei giorni pesano di più, se sei da anni il capitano di quella Juventus. Basta questo per giustificare quel mancato spunto? Forse no, forse stiamo facendo troppa poesia: in fondo Del Piero con la Nazionale se n'è sempre rimasto un po' in disparte, mai capitano, oscurato prima da Baggio, poi da Totti, senza più nemmeno la numero 10, e soprattutto senz'aver mai vinto niente. Però aspettiamo. Perché dovete sapere che una volta, Marcello Lippi ha detto: “Per buttare giù Del Piero, non basterebbe una mandria di tori”.
I successi e i FALLIMENTI del Real Madrid dei GALACTICOS
21-02-2024
I successi e i FALLIMENTI del Real Madrid dei GALACTICOS
Inizia tutto da un matrimonio. Michel Salgado, il terzino destro del Real Madrid che un mese prima a Parigi ha alzato l'Ottava Coppa dei Campioni della storia del club, ha appena sposato Malula Sanz, la figlia del presidente del Real Madrid Lorenzo Sanz. Un matrimonio in famiglia: il 5 luglio 2000, alla Chiesa di San Jeronimo a Madrid, è stato invitato tutto il madridismo che conta, e anche qualche forestiero come José Ramon De La Morena, conduttore radiofonico del programma “El Larguero” su Cadena Ser, che qualche ora prima, però, ha ricevuto la soffiata di una notizia che non farà piacere al padre della sposa. Qualcuno sta progettando la scalata al Real Madrid: le elezioni si terranno a metà luglio, Sanz le ha volute anticipare, convinto di vincerle a mani basse ed essere perciò in carica nel 2002, l'anno in cui si celebrerà il Centenario della Casa Blanca, fondata nel 1902. Ma qualcuno vuole fargli le scarpe: e quel qualcuno avrebbe un asso nella manica formidabile, e ancora nascostissimo. Possibile? Possibile, se quel qualcuno è Florentino Perez, il socio numero 5.894 del Real Madrid: la tessera gliel'aveva regalata suo padre, quando lui aveva 13 anni. Un ingegnere dall'aria mite, un costruttore silenzioso, per nulla incline al populismo, che non buca il video, ma che si è dato l'obiettivo più ambizioso che ci sia per un presidente del Real Madrid: riportare il club ai livelli dell'era di Santiago Bernabeu. Ricostruire il mito. E allora ha IL NOME. Un nome che è uscito da un sondaggio commissionato di nascosto da Perez a migliaia di soci del Real Madrid: se doveste indicare un solo nome che sognate di vedere giocare nel Madrid, chi scegliereste? E la maggioranza ha risposto Luis Figo, reduce da uno straordinario Europeo con il Portogallo, e soprattutto il vice-capitano del Barcellona. Il primo a scrivere di un pre-accordo tra Florentino e Figo, subordinato al risultato delle elezioni del 16 luglio, è stato il giornalista della , ma ad amplificarla in tutte le strade del Paese è De La Morena, che la annuncia in diretta nel giornale radio delle 20:30. Quando arriva al ricevimento, De La Morena viene travolto di insulti da un Sanz inviperito, che davanti a tutti lo accusa di essere un bugiardo. La festa è rovinata. Non s'è mai capito se fosse una notizia vera, un po' gonfiata o del tutto inventata: sta di fatto che Florentino si appoggerà volentieri a questa voce, senza confermarla ma senza nemmeno smentirla, per costruire la sua clamorosa vittoria elettorale. Viene scritto che Florentino ha fatto una promessa a tutti gli 83.697 soci del Real Madrid: se verrò eletto ma Figo non arriverà, pagherò a tutti voi la quota annua di iscrizione al club. Nemmeno Figo pensava davvero che Florentino alla fine avrebbe vinto, e forse quell'autografo sul pre-contratto era stato scritto con mano sin troppo leggera; ma così è, e poi in caso di passo indietro ci sarebbe da pagare una penale enorme, e poi in fondo Figo a Madrid andrà a guadagnare circa il quadruplo di quanto prendeva a Barcellona, e per pagare i 10,27 miliardi di pesetas che spettano al Barça, il neo-presidente attinge anche dal suo patrimonio personale. E così inizia la prima grande avventura di Florentino Perez a capo del Real Madrid, un'avventura tortuosa, complessa, non priva di frasi oscure su sfondo blanco, che si riassume in una parola di dieci lettere, sei consonanti e quattro vocali, che identificherà per sempre quella squadra in ogni angolo del mondo: GALACTICOS.
La MALEDIZIONE del RACING ||| I sette GATTI neri
11-12-2023
La MALEDIZIONE del RACING ||| I sette GATTI neri
La sera del 24 settembre 2002, in Argentina, su “Infinito”, va in onda la seconda puntata di “Pasiòn y misterio”. “Infinito” è un canale a pagamento specializzato in storie del mistero, esoterismo, fenomeni soprannaturali. “Pasiòn y misterio” è una serie dedicata ai grandi misteri del calcio argentino. La seconda puntata si chiama “Gato Encerrado”. Che in spagnolo è un modo di dire, significa “c'è sotto qualcosa”, “qui gatta ci cova”. Ma in questo caso il titolo “Gato Encerrado” ha valore anche letterale: perché “gato encerrado” vuol dire letteralmente “gatto chiuso”, “imprigionato”. Sembra il titolo di un racconto dell'orrore di Edgar Allan Poe, un incubo psicologico all'insegna dell'ossessione e della paranoia, ma invece è la realtà – la realtà romanzesca, l'unica possibile, se sei in Argentina e c'è di mezzo il futbol. Avellaneda è una città qualche chilometro a sud di Buenos Aires che sorge sul fiume Riachuelo, che nell'Ottocento era di fatto il porto della capitale argentina. I due grandi stadi della città si trovano a 300 metri di distanza l'uno dall'altro, cinque minuti a piedi. Uno è il Cilindro di Avellaneda, la casa del Racing, costruito nel 1950, il primo stadio argentino con le tribune interamente coperte: per quei tempi, un gioiello di architettura. L'altro è la Doble Visera, la casa dell'Independiente, la prima squadra argentina a vincere la Libertadores ma senza poi riuscire a trionfare nell'Intercontinentale, perdendo due finali consecutive nel 1964 e 1965, entrambe contro l'Inter. Il Racing è la Academia, maglia biancoceleste. L'Independiente è “el Rojo”, maglia ovviamente rossa. I colori del paradiso contro i colori dell'inferno: potete già iniziare a intuire la rivalità. Il Racing è la squadra per cui faceva il tifo una leggenda vivente della cultura argentina: Carlos Gardel, la cui voce è stata dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'Umanità, tessera numero 11.860 del club e amico personale di tanti calciatori del Racing anni Venti come Pedro Ochoa, citato espressamente in un suo tango, “Ochoìta, el crack de la aficiòn”. Per tanti decenni il “racinguismo” è stato sinonimo di allegria, bellezza, divertimento, ma quando arriva l'Intercontinentale le acque si increspano e ogni partita diventa una battaglia, un gioco da canaglie, uno spettacolo vietato ai minori come tutte le sfide tra Europa e Sudamerica negli anni Sessanta, che alla fine obbligheranno la FIFA a cambiare il format e spostarlo in campo neutro in Giappone. E il triplo confronto tra Racing Avellaneda e Celtic Glasgow dell'autunno 1967 non fa eccezione. Triplo? Triplo. Perché l'andata a Glasgow finisce 1-0 per gli scozzesi, punteggio che il Racing riesce a contenere anche grazie a un atteggiamento sfacciatamente ostruzionistico, con tutto il catalogo di sputi, strattonate e tirate di maglie sconosciuto in Europa, prendendo di mira soprattutto l'unico campione del Celtic, il numero 7 Jimmy Johnstone, tanto che a un certo punto Jock Stein quasi fa invasione di campo per tentare di placarli personalmente, con un po' di sano buon senso scozzese. Ma al ritorno in Argentina, davanti a 120 mila spettatori il che rappresenta ancora oggi il record di capienza del Cilindro, le cose si complicano ancora prima del fischio d'inizio: una grossa pietra colpisce in testa il portiere Ronnie Simpson, mettendolo fuori combattimento. Alcuni giocatori scozzesi vorrebbero dare forfait, ma a chi va comunicata la cosa? In tutto lo stadio non c'è un solo delegato FIFA né UEFA. Il primo tempo termina 1-1: a un rigore coraggiosamente concesso dall'arbitro uruguayano Marino, e trasformato da Gemmell, risponde il pareggio di Raffo segnato di testa in probabile fuorigioco. L'intervallo dura 26 minuti a causa della protesta del Celtic, che al rientro negli spogliatoi ha avuto la bella sorpresa di non trovare più acqua nei rubinetti e nelle docce.
Lo scontro RONALDO-IULIANO ||| L’episodio del secolo tra INTER e JUVE
29-11-2023
Lo scontro RONALDO-IULIANO ||| L’episodio del secolo tra INTER e JUVE
“E comunque quello di Iuliano su Ronaldo era rigore” “Ma quale rigore, al massimo era ostruzione: punizione a due in area” “Ma ancora con questa ostruzione? Iuliano lo travolge in pieno!” “E' Ronaldo che si fa travolgere!” “Ma tu veramente dopo vent'anni continui a dire che non era rigore? Avevate avuto episodi a favore per tutto il campionato!” “Ma che stai dicendo? E il fallo di Taribo West su Inzaghi all'andata a San Siro?” “E vabbè, e il gol di Turone allora?” “Ah fai lo spiritoso? E allora Calciopoli?” “Calciopoli cosa?” “Abbiamo pagato solo noi! E le intercettazioni tra Facchetti e Bergamo? Quelle non te le ricordi?” Uff... Il fallo di Iuliano su Ronaldo non sanzionato dall'arbitro Ceccarini è uno degli spartiacque della storia del calcio italiano. È il più famoso errore arbitrale degli anni Novanta, un'epoca post-monopolio televisivo RAI, quando le polemiche risultavano per forza di cose un po' annacquate, diluite dal fatto che se ne parlava solo pochi minuti la domenica sera, al limite il lunedì mattina al bar o in ufficio, senza tornarci su a ogni ora del giorno e della notte. Ma gli anni Novanta erano anche un'epoca pre-Internet: oggi ogni sciocchezza viene ingigantita, amplificata e diventa moltiplicatore di veleno. Nel 1998 ovviamente c'erano già le tv, tante tv, pubbliche, private, locali, romane e milanesi. C'erano i giornali, tanti giornali, sportivi e generalisti, di Torino e di Milano. Non c'era ancora il Web – e menomale. Ma poi anche il Web si è impegnato a rendere eterna questa guerra civile di cui non s'immagina ancora la fine, che gira intorno a quei maledetti cinque secondi attorno alle 16:25 di domenica 26 aprile 1998.
Gabriel Omar BATISTUTA ||| La storia del RE LEONE
12-10-2023
Gabriel Omar BATISTUTA ||| La storia del RE LEONE
Quando raccontiamo le storie dei grandi campioni, quando cerchiamo di riannodare il filo delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero, sulla giocata che cattura l’attenzione quando meno ce l’aspettiamo. Facciamo inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito, della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che, per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio. È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo. Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva, cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha ricevuto puro amore.
Romário ||| Dalle FAVELAS ai 1000 GOL in carriera
25-09-2023
Romário ||| Dalle FAVELAS ai 1000 GOL in carriera
«Sono nato a Jacarezinho e sono infinitamente grato alla favela. Qui ho imparato a vivere con dignità, ho capito che le persone, per essere rispettate, devono parlare in maniera schietta. Ecco perché dico sempre la verità: non mi importa che possa fare male a qualcuno» Rio de Janeiro è una città sterminata. Sotto gli occhi e le braccia spalancate del Cristo Redentore del Corcovado si cela un mondo: quello smaccatamente turistico di Copacabana e Ipanema, quello sfacciato e divertito del Carnevale più conosciuto del mondo, quello capace di racchiudere una foresta, la foresta di Tijuca, all’interno di una città. Ha ospitato Mondiali e Olimpiadi, è stata capitale del Brasile per quasi due secoli. Per buona parte può essere paragonata alle principali metropoli mondiali, ma è una terra di enormi contrasti, emblema del Brasile stesso. Le favelas più conosciute ed estese del Paese si trovano proprio a Rio: baraccopoli realizzate con materiali di fortuna e strade nelle quali proliferano degrado e criminalità. Hanno rappresentato l’approdo naturale per migliaia, forse addirittura milioni, di ex schiavi: nel maggio del 1888 venne promulgata la Lei Áurea, la Legge d’Oro, che aboliva la schiavitù nel Paese, ultimo atto di un processo di abolizione che era iniziato quasi quaranta anni prima, nel 1850. A firmare la Lei Áurea fu Dona Isabel, principessa imperiale del Brasile, insieme al ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Rodrigo Augusto da Silva. Era, appunto, 1888. 135 anni fa. Solo 135 anni fa. Il Brasile, infatti, è stato l’ultimo Paese del continente americano ad abolire la schiavitù. Una delle principali favelas di Rio de Janeiro è Jacarezinho, nella zona nord della città. Secondo gli studiosi, non si tratta di una semplice baraccopoli, ma di un vero e proprio quilombo replicato in area urbana: per quilombo si intende una comunità fondata da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano rimasti a lungo prigionieri, generalmente collocata nelle zone interne del Paese. Questa la spiegazione del termine nel portoghese brasiliano. Se invece scendente giù in Argentina, armar un quilombo significa semplicemente fare un gran casino...ogni collegamento non credo sia puramente casuale...Tornando a Jacarezinho, ha rappresentato il rifugio per molti di quegli schiavi deportati, diventando in assoluto la favela con la più alta concentrazione di afro-americani. Un territorio fortemente collegato alla figura di Getulio Vargas, visto che si trattava di un’area di proprietà della sua famiglia. Vargas fu il leader della rivoluzione brasiliana del 1930, che pose fine alla Prima Repubblica: all’epoca presidente dello stato del Rio Grande do Sul, fu sconfitto alle presidenziali da Julio Prestes e guidò l’insurrezione in seguito all’assassinio di Joao Pessoa, il suo candidato vicepresidente.
Gigi BUFFON ||| La storia del PORTIERE più FORTE di sempre
18-09-2023
Gigi BUFFON ||| La storia del PORTIERE più FORTE di sempre
Guardate questo fermo immagine. Risale all'8 marzo 1998, è un Parma-Inter di campionato. Il pallone, lo vedete, è in possesso del Parma: un difensore, Roberto Mussi, lo sta portando fuori dall'area. Qualche metro indietro si riconoscono Cannavaro e Thuram, al limite dell'area piccola individuerete facilmente anche Ronaldo il Fenomeno. Purissima Serie A anni Novanta, la migliore di sempre. Ma... non c'è il portiere! Dov'è il portiere? Dov'è Buffon, e perché la porta del Parma è clamorosamente vuota nonostante il pallone sia ancora in gioco, all'interno dell'area di rigore? Se avrete qualche minuto di pazienza ve lo diremo, e vi spiegheremo perché questa è una delle immagini più simboliche della carriera di Gigi Buffon – un'immagine in cui lui letteralmente NON C'E' – e riassume il valore e la diversità di uno dei più grandi portieri di tutti i tempi. Ora guardate questa seconda immagine: questa la riconoscete, no? La parata più gloriosa della carriera di Buffon – forse non la più bella, ma sicuramente la più gloriosa – nasconde un segreto tecnico. Guardate le gambe: al momento dell'impatto tra il pallone e la mano destra di Buffon, le gambe sono ancora perpendicolari al terreno, quasi verticali. È lo stesso gesto tecnico che ritroviamo in tanti altri momenti della sua carriera, sia prima che dopo, per esempio in questa parata molto simile ma molto meno famosa contro il Widzew Lodz, agosto 1997, esordio assoluto in Champions League, quando Gigi non aveva nemmeno vent'anni. Oppure in questa parata su Luis Suarez, in Barcellona-Juventus del settembre 2017, quando Buffon aveva già 39 anni. Lo stile della parata su Zidane, poi replicato così tante volte, risponde in parte a una delle grandi domande sulla carriera di Buffon: come ha fatto a durare così tanto? 1175 partite in carriera, 657 in Serie A, 176 partite in Nazionale: non possono essere stati solamente gesti di cortesia dei vari presidenti. No, oltre a un talento smisurato che era evidente a tutti fin dalla sua prima appar izione, dev'esserci anche un sistema per rimandare il declino fino a dopo i quarant'anni.
Carlo MAZZONE ||| La storia di un allenatore LEGGENDARIO
31-08-2023
Carlo MAZZONE ||| La storia di un allenatore LEGGENDARIO
Il calciatore più anziano mai schierato in Serie A da Carlo Mazzone si chiamava Renato Campanini, giocava nell'Ascoli ed era nato nel 1938. Il più giovane si chiamava Luca Tedeschi, giocava nel Bologna ed era nato nel 1987. Non sono giocatori famosi, ma il punto è un altro: tra loro due ci sono 49 anni, quasi mezzo secolo di storia d'Italia, una guerra mondiale, un referendum per passare dalla Monarchia alla Repubblica, un boom economico, svariate crisi economiche ed energetiche, otto Presidenti della Repubblica, due Re, sei Papi. Mazzone ha allenato l'Italia, l'ha letteralmente vista crescere, e non parliamo solo di Totti, Baggio, Antognoni ma di centinaia di... fuoriclasse, ottimi giocatori, brillanti promesse, promesse mancate, meteore, delusioni. Per 792 partite di Serie A, più tre spareggi salvezza, più due spareggi UEFA. Ha debuttato in Serie A nel 1974 quando nella tv c'erano solo due canali, il Primo e il Secondo, ed è tornato negli spogliatoi per l'ultima volta nel 2006, quando dall'altra parte del pianeta qualcuno era già riuscito a collegare il mondo intero con un'unica grande rete. Dalle dirette di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, ma solo i secondi tempi, all'invadenza dei social dove alla fine era sbarcato anche lui, al giro di boa degli 80 anni, con l'aiuto del nipote Alessio che gli gestiva gli account. Mazzone è romanzo popolare, romanzo familiare, autobiografia positiva di una Nazione che è sempre pronta a bersagliare con l'invidia e la cattiveria i suoi figli migliori, ma in cinquant'anni su Mazzone non ha mai avuto niente da dire. C'è soprattutto l'etica del lavoro, la passione per il lavoro, qualunque esso sia: umile o aristocratico, di fatica o di concetto. Da bambino Carletto Mazzone aiutava suo padre nell'officina di Trastevere, da uomo ha solcato i mari della Serie A per ventotto stagioni senza mai far pesare il proprio status, senza mai dire "il mio calcio", senza mai voler essere didascalico. Ogni tanto con orgoglio ha rivendicato le proprie conquiste, i propri titoli: nessuno scudetto e nemmeno nessuna coppa europea, al massimo una semifinale di Coppa UEFA con il Bologna, per quanto clamorosa, rigenerando un campione come Beppe Signori e spremendo il massimo da gente come Jonathan Binotto e Amedeo Mangone. Nessun trofeo, a parte una Coppa Italia vinta da allenatore-ombra della Fiorentina nel 1975, ma qualcosa forse di più sottile e profondo. La certezza riconosciuta, universale, di essere un uomo perbene.
Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre
05-07-2023
Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre
Silvio BERLUSCONI in 21 storie ||| Il presidente più VINCENTE di sempre AL DIAVOLO! Formalmente, Silvio Berlusconi è stato presidente del Milan dal 10 febbraio 1986 al 13 aprile 2017. 31 anni e 29 trofei, tra cui 8 scudetti, 5 Champions League, 2 Coppe Intercontinentali e un Mondiale per Club. Ma scendendo più in profondità, la sua epoca splende e passa alla storia soprattutto per quello che ha fatto in prima persona fino alla primavera 1994, fino a quando l'impegno politico non lo ha costretto a delegare la parte sportiva del suo impero, sempre di più, ad Adriano Galliani. Fino ad allora, non c'era filo d'erba di Milanello che si muovesse senza il consenso di Berlusconi: un uomo che, comunque la pensiate, ha cambiato radicalmente il mercato, la comunicazione, la tattica, il formato delle competizioni, persino le regole del gioco del calcio. A volte ha esagerato, altre volte ha speso troppo e non è stato un bell'esempio, altre ancora è stato cattivo maestro di veri e propri avventurieri che, non essendo ricchi e potenti quanto lui, con il pallone si sono rovinati, e hanno rovinato altre società. Ma una cosa è certa: sul calcio di oggi Berlusconi ha lasciato un'impronta profonda e incancellabile quanto quella di Buzz Aldrin sul suolo lunare. E alla fine è proprio così: ci piaccia o no, ci sia piaciuto o no, Silvio Berlusconi è stato il nostro “man on the moon”. Succede tutto nel giro di poche settimane: l'Associazione Calcio Milan è sull'orlo del baratro. A dicembre il presidente Giussy Farina ha annunciato le dimissioni e il motivo si scopre due settimane dopo: il vicepresidente Gianni Nardi, un imprenditore milanese a cui Farina deve sette miliardi di lire, ha presentato richiesta di sequestro delle azioni di Farina che costituiscono il 51% del Milan. Si apre la crisi e si scoperchia il pentolone: i giocatori non ricevono da mesi lo stipendio, l’Irpef non pagata supera i tre miliardi di lire, alcuni club battono cassa, ad esempio il Portsmouth non ha ancora ricevuto il pagamento della terza rata di Hateley. Farina scappa in Namibia, sulle rive del fiume Okavango, dove non esiste l'estradizione per reati fiscali; la gestione del Milan passa a Nardi. Il petroliere Dino Armani sembra a un passo dal rilevare la società e ha già annunciato il suo metodo per risanare i conti: vendiamo Baresi alla Sampdoria e Maldini alla Juventus. Sabato 8 febbraio il Cavaliere convoca il suo gabinetto di guerra a Villa Suvretta, un sontuoso palazzone di pietra grigia a Sankt Moritz, che gli è stato affittato dallo scià di Persia per 436 milioni all’anno. Per evitare di rimanere impantanato nella burocrazia e nei ricorsi, bisogna forzare la mano, magari anche minacciare di fare un passo indietro. Il 9 febbraio, in Milan-Sampdoria, il popolo di San Siro insorge con striscioni molto espliciti: “Silvio, cancella questa società di ladri”. Anche Nardi “tifa” per Berlusconi: prende tempo con Armani e la sera del 10 febbraio chiude la trattativa con il Cavaliere. Vanno tutti a festeggiare alla Risacca, un ristorante in via Marcona a un passo da piazza Cinque Giornate, fino alle due e mezza del mattino. A quell’ora già sono aperte le prime edicole: l’allegra combriccola si trascina fino in Porta Venezia, in cerca della storica prima pagina della Gazzetta. Foto di repertorio del Cavaliere con un bicchiere in mano, e accanto il titolo: “Berlusconi annuncia: sì, il Milan l'ho preso io”.
La storia di KVARATSKHELIA ||| Alla scoperta di un FENOMENO
19-06-2023
La storia di KVARATSKHELIA ||| Alla scoperta di un FENOMENO
La storia di KVARATSKHELIA ||| Alla scoperta di un FENOMENO Prendete uno di quei romanzi russi da duemila pagine, tipo Guerra e Pace, Lev Tolstoj, 1869: poemi di stampo omerico, che travalicano le epoche. Di quelli che poi diventano anche film, tre ore e 19 minuti, con Vittorio Gassman, Audrey Hepburn, Henry Fonda, regia di King Vidor, un Oscar come miglior film straniero più altre quattro nomination. Sono ancora possibili storie così? Sono ancora credibili storie così? Forse solo nel calcio, l'ultima forma di intrattenimento del Novecento che ancora resiste all'usura del tempo. E non è facile nemmeno nel calcio di oggi, dove tutto è conosciuto, tutto è parametrato, tutto è scoutizzato, niente è lasciato al caso, niente più rimane ignoto. Quasi niente. Qualcuno ogni tanto sfugge ai radar. Però bisogna andare a pescarlo in Russia, e passare attraverso una crisi economica, una crisi sportiva, parecchi cambi di allenatore, una pandemia mondiale, purtroppo anche una guerra. Ma se ce la fai, se riesci a districarti con lo stile di una spia nella Vienna degli anni Quaranta e uscire vincitore da questo labirinto di passaporti, tornei giovanili, provini e intermediari, poi va a finire che ti porti a casa il miglior giocatore del campionato. E allora buon divertimento con questo piccolo kolossal contemporaneo, anche questo – come Guerra e Pace del 1956 – prodotto... da De Laurentiis. Il primo cenno all'esistenza di Khvicha Kvaratskhelia sulla stampa occidentale risale all'11 ottobre 2018, quando il Guardian – una delle migliori redazioni sportive d'Europa – pubblica la lista dei migliori 60 giocatori nati nel 2001, che quel giorno hanno tutti 17 anni. Come sempre, ci sono futuri campioni, per esempio Rodrygo del Real Madrid, Eric Garcia del Barcellona, oppure il nostro Nicolò Fagioli, ma anche qualche giocatore che non è ancora esploso, tipo l'olandese Daishawn Redan, giovanili di Ajax e Chelsea, che ha concluso la stagione 2022-23 al Venezia. E poi c'è Khvicha Kvaratskhelia, che gioca nel Rustavi, una squadra che si barcamena a metà classifica del campionato georgiano dopo che l'anno prima era stata promossa in prima divisione. Leggiamo: “Conosciuta in passato per ottimi giocatori offensivi, da tanto tempo la Georgia non sforna più talenti di grosso calibro. Kvaratskhelia, tuttavia, sembra avere tutte le carte in regola per essere per tanti anni il miglior calciatore georgiano. Tecnicamente è molto dotato, come tanti giovani georgiani, ma spicca anche per altre caratteristiche. Prodotto del vivaio della Dinamo Tbilisi, è forte fisicamente, ha un'ottima accelerazione ed è sempre imprevedibile nell'uno contro uno. Cosa molto importante, è capace di usare entrambi i piedi. Non è ancora stato paragonato a nessun calciatore famoso del passato, ma se guardiamo all'estero vengono in mentre tre nomi: Julian Draxler, Julian Brandt, e Leroy Sané. Kvaratskhelia ha esordito da professionista a 16 anni, ha segnato tre gol e ne ha segnato uno per l'Under 17 della Georgia nelle qualificazioni a Euro 2018. Ha già attirato l'interesse del Bayern Monaco, della Lokomotiv Mosca e di alcuni club di Serie A”.
EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano
21-04-2023
EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano
Venerdì 21 marzo 2003 a Milano è il primo giorno di primavera, come in qualunque altra parte dell'emisfero boreale. 24 ore prima gli Stati Uniti di George W. Bush hanno ufficialmente dato via alle procedure d'invasione dell'Iraq, appoggiata anche dall'Italia, e tutte le città d'Europa hanno risposto con mobilitazioni di massa contro la guerra. Anche a Milano: scioperi, una veglia notturna sul sagrato del Duomo, un corteo di almeno 50mila persone da largo Cairoli fino in Duomo. All'Ospedale Sacco un uomo di rientro dal Vietnam è stato ricoverato per motivi precauzionali: manifesta tutti i sintomi della SARS, la nuova epidemia esplosa a novembre nel Sud-Est Asiatico. Il caldo tarda ad arrivare: minima di 2 gradi, massima di 16, cielo sereno con qualche nuvola nel pomeriggio. Ma intorno a mezzogiorno la temperatura emotiva della città schizza alle stelle: a Nyon c'è il sorteggio del tabellone della fase a eliminazione diretta della Champions League. Il Milan ha una sola possibilità su tre di evitare un derby italiano: beccherà sicuramente una tra Inter, Juventus e Ajax. E invece, per dirla con le parole di Adriano Galliani, succede un miracolo. Un mese dopo, le italiane fanno tutte e tre il loro dovere. Martedì 22 aprile, l'Inter elimina il Valencia dopo 90 minuti di resistenza commovente e un Toldo da 9 in pagella; la Juventus sbanca il Camp Nou con un gol nei tempi supplementari del Panterone Zalayeta. E quando la sera dopo, al 90' appena scoccato, una combinazione Inzaghi-Tomasson manda il Milan in paradiso, il cantore rossonero Carlo Pellegatti non riesce a trattenersi e pronuncia in diretta una frase che potrebbe urlare solo un pazzo, oppure un uomo incredibilmente ottimista. “Siamo in finale!”. Il Milan già sapeva che nell'eventuale semifinale avrebbe affrontato l'Inter... e Pellegatti urla “siamo in finale”. Ma se pensate che in quei giorni tutta Milano, sia la parte rossonera che nerazzurra, proclami spavalda la propria superiorità cittadina, sappiate che siete lontanissimi dalla verità. Come!, diranno i non milanesi, “la città più razionale, ottimista, sbruffona d'Italia, anche lei vittima di queste sciocche scaramanzie”. Tutto vero, tutto nero. Per dirla alla Billy Costacurta, “inizia la settimana peggiore della vita calcistica di Milano”. Immaginiamola come un lungo e angosciante thriller, con i giorni scanditi da scritte bianche su sfondo nero, come in Shining.
Quando TRE ITALIANE arrivarono in FINALE nelle COPPE europee ||| 19 aprile 1989
22-03-2023
Quando TRE ITALIANE arrivarono in FINALE nelle COPPE europee ||| 19 aprile 1989
Nella storia della musica sono poche le date che hanno l'onore di essere diventate il titolo di una canzone: in Italia la più famosa è “4 marzo '43” di Lucio Dalla, oppure nel resto del mondo c'è anche “8 aprile '82” di Beck. Sono ancora meno le date che hanno addirittura dato il titolo a un intero disco: tra queste c'è l'undicesimo album di Francesco De Gregori, che s'intitola “Miramare 19 aprile 1989”, come l'inizio di una lettera, di una cartolina o un articolo di giornale. È un album pieno di inquietudine verso il presente, che usa toni aspri per parlare di cronaca, di inquinamento, di traffico di organi, di aborto. Un disco anche piuttosto amaro, volutamente poco sintonizzato sul mood ottimista, tendente all'euforia, del decennio che sta finendo in bellezza per il nostro Paese. La data prescelta da De Gregori è anche per coincidenza una data storica per il calcio italiano: 19 aprile 1989, quando per la prima volta portiamo una squadra in finale in ognuna delle tre Coppe Europee: la Coppa delle Coppe, la Coppa UEFA, la Coppa dei Campioni. A beneficio dei più giovani bisogna ricordare com'erano organizzate negli anni Ottanta le tipiche settimane di Coppa: tutte le partite al mercoledì, chi prima chi dopo, di pomeriggio, in prima serata o in differita notturna. Con mille variabili: il segnale via satellite, i diritti televisivi che non erano collettivi come oggi ma gestiti da ogni squadra di ogni Paese, eventuali scioperi dei giornalisti o degli operatori radio-televisivi. Oggi c'è l'UEFA che fa in modo di non sovrapporre due partite importanti, o perlomeno ci sono le tv che hanno pronto il canale Diretta Gol per consentirci di seguire un po' tutto. Ma negli anni Ottanta, niente di tutto questo. Eccovi il palinsesto televisivo di mercoledì 19 aprile 1989: ore 15:30, Rai2, Sampdoria-Malines, telecronaca di Ennio Vitanza ore 20:15, Rai 3, Bayern Monaco-Napoli, telecronaca di Giorgio Martino ore 20:30, Rai1, Milan-Real Madrid, telecronaca di Bruno Pizzul Poi, per i più affamati, Sredets Sofia-Barcellona, seconda semifinale di Coppa delle Coppe, alle 18:30 su Capodistria, dove alle 22:45 andrà in onda in differita anche Dinamo Dresda-Stoccarda, seconda semifinale di Coppa UEFA. E forse a questo punto avrete notato la totale assenza di squadre inglesi, e c'è un motivo: dopo il disastro dell'Heysel, 29 maggio 1985, l'UEFA le ha squalificate in blocco dalle Coppe per cinque anni. Un provvedimento severissimo per debellare la piaga degli hooligans, che il governo di Londra sta recependo con grande fatica: quattro giorni prima a Sheffield, il 15 aprile 1989, a margine della semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, sono rimasti sul prato di Hillsborough i corpi senza vita di 97 tifosi Reds. Anche se in questo caso gli hooligans c'entrano ben poco: le responsabilità sono tutte della polizia di Sheffield, oltre che di stadi antiquati, scomodi e molto pericolosi, che nel giro di dieci anni in Inghilterra verranno tutti messi in sicurezza. Il mercoledì di Coppa, con le semifinali di ritorno di tutte e tre le Coppe, arriva anche per dimenticare la tristezza di un weekend tragico che rappresenterà un punto di non ritorno nel rapporto tra il calcio e l'Inghilterra. E adesso, possiamo cominciare.
“NON vedrete più UNA COSA simile” ||| Il DRAMMATICO FINALE di Man City-QPR 3-2
03-03-2023
“NON vedrete più UNA COSA simile” ||| Il DRAMMATICO FINALE di Man City-QPR 3-2
“Dramatic”. In inglese questa parola non ha solamente il significato letterale che ha in italiano: e cioè drammatico, angosciante, straziante, strappalacrime. Può voler dire anche “spettacolare”, avvincente, sorprendente, pieno di colpi di scena. Qualcosa di “dramatic” può anche avere un lieto fine. “Dramatic” vuol dire soprattutto una storia scritta bene, con una sceneggiatura favolosa, di quelle che sorpassano a destra i migliori copioni di Hollywood. Bene, le cose che successero a Manchester il 13 maggio 2012 furono subito riconosciute da tutto il mondo come “the most dramatic end of any Premier League season”. Il finale più drammatico / Manchester City – QPR Ultima giornata di Premier League, bagarre totale sia per il primo posto che per il terzultimo. In testa alla classifica, a 86 punti, Manchester City e Manchester United. Il City ha una migliore differenza reti: gli basterà vincere per diventare campione d'Inghilterra, per la prima volta dopo 44 anni. Forse una volata così serrata non c'era mai stata, nella storia della Premier League. I Citizen sono quelli che Alex Ferguson con una certa spocchia ha chiamato nel 2009 “the noisy neighbours”, “i vicini rumorosi”. La conoscete la storia? Nell'estate 2009 Carlitos Tevez era passato dal Manchester United al Manchester City, uno dei primi grandi colpi della nuova proprietà che fa capo al principe di Abu Dhabi Mansour Bin Zayed. Manchester è un po' come Torino, dove la Juventus è certamente la squadra più blasonata, ma i tifosi granata rivendicano la superiorità in materia di tifo. E a quel punto David Pullan, il capo del marketing del City, era riuscito a convincere i nuovi dirigenti a mettere un po' di pepe nella sonnacchiosa rivalità cittadina, a senso unico da oltre trent'anni. Così, insistendo a lungo, aveva ottenuto l'autorizzazione per confezionare un poster con i colori del City, la foto di Tevez esultante e una scritta inequivocabile: “Welcome to Manchester”. E la frase stizzita di Ferguson dimostrò che Pullan aveva fatto centro. Beh, il calcio fa giri molto strani, se è vero che nel 2012 a gennaio Tevez è stato a un passo dal lasciare il City per trasferirsi al Milan: l'operazione era già conclusa, grazie al trasferimento di Pato al Paris Saint Germain che avrebbe lasciato spazio a Tevez, ma poi il brasiliano si era messo di traverso – e soprattutto la sua fidanzata Barbara Berlusconi, che aveva convinto suo padre a trattenere il Papero, per il dispiacere di Adriano Galliani che aveva visto andare in fumo la sua operazione-capolavoro. Così il 13 maggio 2012, dopo essere stato fuori rosa fino a primavera, Tevez parte titolare accanto all'altro argentino, Sergio Agüero, chiamato El Kun fin da bambino per la somiglianza con un cartone animato giapponese, “Kum Kum il cavernicolo”. È arrivato nell'estate 2011 dall'Atletico Madrid e gli inglesi ci hanno messo qualche mese per imparare la corretta pronuncia del cognome: non “a-ghe-ro” ma “a-gue-ro”, come indicano quei due puntini sulla U. Non è soltanto un segno fonetico tedesco: i puntini sulla U esistono anche in spagnolo, si chiamano “dieresis” e compaiono anche su alcuni nomi comuni, per esempio “pingüino”. “Dramatic” è anche la corsa per non retrocedere, ridotta ormai a due squadre: il Bolton e il Queen's Park Rangers.
La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
22-02-2023
La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
«Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Sono sempre stato un ragazzo tranquillo, non una testa di cazzo: chi mi conosce, lo sa» Di quanti talenti ci siamo chiesti: «Come sarebbe andata se avesse fatto una scelta invece di un’altra?». Questa è una di quelle storie. Ma è anche la storia di come un determinato modo di raccontare il calcio e i suoi protagonisti possa finire per creare una visione distorta, una narrazione facile ma lontana dalla realtà. Per troppo tempo, si è cercato di ricamare storie sul suo modo di vivere. I capelli lunghi, l’orecchino in vista, le automobili di lusso. Gianluigi Lentini voleva soltanto giocare a calcio. E lo faceva splendidamente, forte di un fisico bestiale e di una padronanza tecnica innata. Chi l’ha detestato, confondendo la sua riservatezza per spocchia, vi dirà che ha fatto troppo poco per meritare di essere ricordato. Chi lo ha amato, invece, vi spiegherà che quel poco è stato più che sufficiente per vedere all’inizio degli anni Novanta un calciatore avanti dieci anni. Gigi Lentini nasce a Carmagnola nel marzo del 1969, ma soltanto perché lì c’è l’ospedale. Cresce infatti a Villastellone, un quarto d’ora più a nord, purissima campagna torinese: il sole che d’estate cuoce i tetti delle case e che d’inverno, invece, si vede meno. Il pallone diventa subito un passatempo che domina le sue giornate e a dieci anni è già nel vivaio del Torino, che in quegli anni non è solo un serbatoio per la prima squadra, ma per tutto il calcio italiano. Sergio Vatta, allenatore della Primavera e maestro di calcio giovanile, era entrato in società in pianta stabile due anni prima: merito anche di un’imbeccata che non era stata assecondata da Gigi Radice. Nel 1975, quando allenava l’Ivrea e per un giorno a settimana faceva l’osservatore per i granata, era stato portato a Lione da Giacinto Ellena, responsabile del vivaio del Toro, per andare a vedere il ventenne Michel Platini, all’epoca stellina del Nancy. Erano anni in cui il mercato estero, per i club italiani, era inaccessibile per regolamento: le frontiere erano ancora chiuse dopo il fallimento mondiale del 1966. Vatta rimase stregato da Platini, facendo presente al club che si poteva opzionare con cento milioni, ma alla fine non se ne fece nulla. Ma torniamo a Lentini, alla sua crescita nel settore giovanile. Vatta lo vede per la prima volta durante una partita degli allievi, a Mathi Canavese. È un colpo di fulmine. Osserva questo corpo che sembra uscito dalle mani di Canova fare su e gi ù sulla fascia, apparentemente senza fatica. C’è da lavorare, ovviamente, perché Lentini si piace un po’ troppo e il luogo comune del dribblomane fumoso è dietro l’angolo. Ma Vatta ha già capito che quella materia prima è fin troppo semplice da plasmare e da rendere un giocatore di altissimo livello. «In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili. La maglia numero 7 finiva sempre stracciata. Una volta fece quattro gol alla Samp, nell’ultimo scartò mezza squadra, si fermò sulla linea di porta, aspettò il portiere e segnò. Eravamo al Fila, il portiere era Pagliuca che lo inseguì per tutto il campo». (Sergio Vatta) Si guadagna in fretta la chiamata delle nazionali giovanili, gli esperti di cose granata lo devono tenere d’occhio già nella stagione 1986-87, quando inizia a trovare un po’ di spazio in prima squadra agli ordini di Radice e vince il Viareggio in Primavera, insieme all’amico Diego Fuser. Giocare con il numero 7 nel Torino non è come farlo in altre squadre. La mistica che si porta dietro una maglia che fu di Gigi Meroni e di Claudio Sala non sembra però turbarlo più di tanto. Il calcio di Lentini è istintivo, spensierato. Per certi versi, anche un po’ arrogante. In due stagioni mette insieme poche presenze da titolare e tanti spezzoni. L’obiettivo della società è verificarne la tenuta su una stagione intera e così, nell’estate del 1988, viene mandato ad Ancona, in Serie B.
La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou
15-02-2023
La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou
Tutti quelli che passavano da Barcellona almeno per un weekend tra il 2009 e il 2012 difficilmente riuscivano a resistere alla tentazione di dare quantomeno un'occhiata al più grande spettacolo del mondo. Un calcio ipnotico e visionario, la miglior orchestra mai assembleata dai tempi del Milan di Sacchi al servizio di un direttore di furibonda genialità, ma anche uno spettacolo costoso, esclusivo, globale nel senso più puro del termine, con migliaia di spettatori americani, indiani, giapponesi che si mischiavano ai tifosi locali, disposti a spendere qualunque cifra per 90 minuti di Messi e compagni. Nelle notti più torride era tutto esaurito anche il quarto anello del Camp Nou, da cui – notoriamente – non si vede niente, il calcio sembra virtuale e i giocatori sembrano dei pixel indefinibili come in un vecchio videogame. Quest'ingranaggio apparentemente perfetto, che coniugava risultati e stile – il Barça con le magliette sponsorizzate Unicef, su cui Mourinho avrebbe ironizzato un anno dopo – questa macchina infernale che macinava titoli spagnoli e internazionali, che aveva vinto una Champions League nel 2009 e un'altra ne avrebbe vinta nel 2011, fu sabotato il 28 aprile 2010. In dieci, nel Duemila-Dieci, a difesa di un risultato che, privato del trattino, diventa anch'esso un Dieci. 10 cartoline da Barcellona, la più bella sconfitta della storia dell'Inter.Era considerato dormiente dal 1821, ma intorno alla mezzanotte del 20 marzo 2010 il vulcano islandese Eyjafjöll, punta di diamante del ghiacciaio Eyjafjallajökull (eiafiatlaiòcutl ), ha la bella idea di risvegliarsi ed eruttare. È l'ultimo sabato sera invernale: l'Inter ha rallentato a Palermo, 1-1, gol di Milito e pareggio di Cavani, ed è andata a dormire con un filo di preoccupazione perché il Milan di Leonardo, il giorno dopo, battendo il Napoli in casa potrebbe operare il sorpasso in vetta alla classifica – ma non ci riuscirà. Per un mese il vulcano islandese rimane un accidente trascurabile e non trova spazio sui giornali fino a metà aprile, quando un'altra grossa eruzione crea un'enorme nube di ceneri vulcaniche che appesta i cieli di tutto il continente e causa disagi, ritardi e cancellazioni in tutti gli aeroporti d'Europa. Così il Barcellona arriva a Milano dopo 15 ore di viaggio in pullman stile gita scolastica, con unica tappa a Cannes: un pullman extra lusso, naturalmente – qui vedete Puyol che prova a rassicurare i tifosi postando su Twitter le foto degli interni.Ma la sfacchinata lascia alcune scorie nelle gambe dell'ultrastressato Barça, che dopo il gol di Pedro cade con tutte le scarpe nella strategia approntata da Mourinho: difendere bassissimi e ripartire, fino a pungere tre volte con Sneijder, Maicon e Milito. Anche su Inter-Barcellona 3-1 si potrebbe parlare per giorni interi e solo lo show finale di Balotelli meriterebbe una parentesi di mezz'ora. Ad ogni modo, nonostante i due gol di scarto, il Barça è ancora sinceramente convinto che si sia trattato di un episodio isolato e irripetibile, anche se Iniesta è infortunato e salterà anche il ritorno, anche se i cinque cartellini gialli – tra cui quello di Puyol, diffidato e squalificato – dovrebbero allarmare un po' Guardiola sulla delicatezza anche psicologica del doppio confronto. Del resto, il punteggio che serve l'hanno già ottenuto a novembre, nel girone, un Barcellona-Inter in cui il 2-0 finale stava fin troppo stretto al Barça, perdipiù senza Leo Messi. Niente, la parola è solo una, recitata come un mantra, agitata come un grido di battaglia: “remuntada”. “Io ho raccomandato ai miei giocatori di inseguire un sogno, mentre invece per il Barcellona è un'ossessione. Il sogno è più puro dell'ossessione. Per il Barcellona raggiungere la finale di Parigi nel 2006 e Roma nel 2009 è stato un sogno, ma arrivare alla sfida decisiva al Santiago Bernabeu, nella tana del Real Madrid, è un'ossessione. Li capisco: lo sarebbe anche per noi se andassimo a giocarci la Champions a Torino". (José Mourinho, c
La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO
25-12-2022
La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO
Nella cultura occidentale il portiere è sempre stato un uomo solo. A volte maledetto – pensate a Moacir Barbosa, passato alla storia come l'unico responsabile del Maracanazo – a volte pittoresco, estroso, fuori dagli schemi. “Per fare il portiere bisogna essere un po' matti”, si dice, o quantomeno non soffrire troppo il peso della solitudine. C'è anche una poesia di Umberto Saba, si intitola “Goal”, la descrizione di un gol dal punto di vista dei due portieri: quello che l'ha subito è disperato, distrutto, “contro terra cela la faccia a non vedere l'amara luce”. L'altro esulta sì, ma da lontano, cerca invano di imbucarsi alla festa degli altri: “La sua gioia si fa una capriola/si fa baci che manda di lontano/della festa – egli dice – anch'io son parte”. In Russia, invece, è tutto diverso: in Russia il portiere è un eroe nazionale, letteralmente “l'estremo difensore”, il capitano morale, l'esempio da portare ai bambini. Ladifesa della porta si sovrappone alla difesa della Patria: sarà retorico?, sì, lo è, ma ovunque il calcio è retorica, spirito di squadra, senso di appartenenza. Se da noi il portiere è un escluso, in Russia il portiere include tutti gli altri, tutto il popolo. C'è un articolo del 2006 del Guardian, scritto dal grande Jonathan Wilson, che s'intitola: “Perché tutti i russi vogliono essere portieri?”. La risposta sta in un nome, poi in un secondo nome patronimico, infine in un cognome: Lev Ivanovic Jascin. Il giovane Lev Jascin abbraccia davvero la vocazione del portiere ben oltre i vent'anni. Fino al 1949 non va oltre la squadra B della Dinamo Mosca. È stato notato da Arkady Chernyshov, allenatore delle giovanili della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, dove però tra i pali vige la logica del posto fisso: una delle poche tracce di proprietà privata nell'Unione Sovietica, proprietà di Aleksei Khomich, “la Tigre”. Khomich era il biglietto da visita della prima squadra di calcio sovietica che abbia messo il naso oltre-cortina dopo la guerra: nel novembre del 1945 la Dinamo si è esibita in alcune amichevoli a scopo puramente promozionale in Inghilterra, contro il Chelsea e il Tottenham, e lui ha rubato la scena. Una leggenda vivente. Ti puoi affacciare in campo solo nelle rare volte in cui Khomich è infortunato, o casomai per un'amichevole: come quella contro il Traktor Stalingrado, primavera del 1949, il debutto di Lev Jascin in prima squadra. Un debutto da sogno, un debutto da incubo: a un certo punto, sul rinvio del portiere avversario, prolungato dal vento, fa per andare in presa alta ma si scontra con un difensore e la palla finisce in rete, tra le risate generali. Seconda chance: 2 luglio 1950, derby sentitissimo tra Dinamo e Spartak, Khomich si fa male e dalla panchina l'allenatore Dubinin ordina a Jascin di entrare in campo. I suoi sono avanti 1-0, mancano pochi minuti alla fine, ma arriva un'altra uscita a vuoto. Leggenda vuole che dopo la partita un dirigente della Dinamo faccia irruzione in spogliatoio con parole piuttosto nette: “Sbattete questo cretino fuori dalla squadra”. Terza chance, quattro giorni dopo, 6 luglio 1950: e questa finalmente la vince, sì, ma la vince 5-4, perché il giovane Jascin ha preso 4 gol dalla Dinamo Tbilisi. Ok ragazzo, gli dice l'allenatore, sarà per un'altra volta. Come da manuale del giovane calciatore anni Quaranta e Cinquanta, Lev Jascin ha avuto un'infanzia difficile. Sua madre è morta di tubercolosi quando lui aveva sei anni. Poi, a undici anni, è arrivata la guerra: insieme a suo padre Ivan è stato evacuato da Mosca nell'ottobre 1941, trovando riparo a Ulyanovsk, 900 chilometri più a Est.