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Ascolta "Sostenibilità" - L’appuntamento dedicato al global warming e alle nuove sfide green di imprese, istituzioni e cittadini. “Sostenibilità” è l’approfondimento di Giornale Radio sulle notizie relative ai cambiamenti climatici, con aggiornamenti sugli effetti del riscaldamento globale, sui piani d’azione definiti dai principali governi mondiali e sulle iniziative di compagnie e società. A cura di Roberto Frangipane e Ferruccio Bovio Per i notiziari sempre aggiornati ascoltaci sul sito: https://www.giornaleradio.fm oppure scarica la nostra App gratuita: iOS - App Store - https://apple.co/2uW01yA Android - Google Play - http://bit.ly/2vCjiW3 Resta connesso e segui i canali social di Giornale Radio: Facebook: https://www.facebook.com/giornaleradio.fm/ Instagram: https://www.instagram.com/giornale_radio_fm/?hl=it Twitter: https://twitter.com/giornaleradiofm read less
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L'aumento delle temperature degli ultimi anni | 06/07/2022 | Sostenibilità
06-07-2022
L'aumento delle temperature degli ultimi anni | 06/07/2022 | Sostenibilità
“Con la media delle temperature degli ultimi anni, i ghiacciai sotto i 3.500 metri sono destinati a sparire nel giro di 20-30 anni. Se le temperature continueranno ad aumentare, nel giro di pochi decenni i ghiacci eterni dalle Alpi Orientali e Centrali potrebbero ridursi drasticamente o scomparire. Rimarrebbero solo sulle Alpi Occidentali, quelle più alte. Inoltre, i ghiacciai sono sempre più scuri, e quindi più vulnerabili alle radiazioni solari”. E' questo lo scenario delineato dal WWF il giorno dopo la tragedia verificatasi sulla Marmolada, dove il crollo di un seracco ha provocato diverse vittime. Naturalmente, nessuno poteva conoscere il tempo ed il punto esatto in cui il disastro sarebbe avvenuto, ma ciò nonostante, si può egualmente dire che si è trattato di una sciagura ampiamente annunciata. Quanto accaduto corrisponde, infatti, alle proiezioni ed agli avvertimenti che climatologi e glaciologi diffondono da parecchi anni, in particolare attraverso i rapporti dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo dell’ONU sul cambiamento climatico, che ha pubblicato, tra l’altro, anche un rapporto specifico intitolato ”Mari e criosfera in un clima che cambia” nel 2019. Del resto – spiega sempre il WWF - di tragedie per i cosiddetti “pericoli dei ghiacciai” se ne sono verificate diverse altre sulle Alpi europee negli ultimi anni, ma tutte presto dimenticate”. L’ultimo Catasto dei ghiacciai italiani dimostra che, negli ultimi decenni, i nostri ghiacciai alpini sono in forte ritiro: tanto è vero che la loro superficie è passata dai 519 km quadrati del 1962 ai 609 km del 1989, per poi scendere in picchiata agli attuali 368 km quadrati: e vale a dire al 40% in meno rispetto al 1989. Al tempo stesso, il numero dei ghiacciai è, invece, cresciuto: sono, infatti, oggi 903, contro gli 824 nel 1962 ed i 1,381 nel 1989, ma l’aumento rispetto al 1962 è un altro segnale di pericolo, perché è dovuto all’intensa frammentazione che ha ridotto sistemi glaciali complessi a singoli ghiacciai più piccoli. Inoltre, negli ultimi 150 anni alcuni ghiacciai hanno perso più di due chilometri di lunghezza, ma a ridursi è stato anche il loro spessore che in una sola estate può assottigliarsi persino di 6 metri. Come il WWF denuncia da anni, “le conseguenze sono devastanti, non solo per l’ambiente e il paesaggio montano, ma anche per le comunità e le attività economiche, dal turismo all’energia”. L’organizzazione ambientalista da molto tempo segnala che “i deflussi estivi dei fiumi derivano per la maggior parte dalla fusione glaciale. Venendo meno i ghiacciai, svanisce, quindi, anche il loro contributo ai torrenti alpini ed ai fiumi della Pianura Padana, con significative conseguenze sull’approvvigionamento idrico per la popolazione e per le attività economiche: a cominciare dall’agricoltura e dalla produzione idroelettrica e termoelettrica”. I dati e le analisi sono disponibili da tempo, ma è stata è l’azione a mancare. Il WWF chiede, pertanto, al Governo di agire subito sia per la mitigazione ( e cioè per l’abbattimento delle emissioni di gas climalteranti), che per l’adattamento ( e cioè per le misure atte a far fronte al danno e agli impatti già in atto).
Analisi delle acque del lago di Garda | 05/07/2022 | Sostenibilità
05-07-2022
Analisi delle acque del lago di Garda | 05/07/2022 | Sostenibilità
Anche quest’anno la Goletta dei Laghi di Legambiente, composta da un team di tecnici e volontari, ha analizzato le acque del lago di Garda, raccogliendone 13 campioni: e più precisamente, 7 sulla sponda lombarda e 6 su quella veneta. In Lombardia, dalle analisi microbiologiche, sono risultati “fortemente inquinati” tre dei punti campionati (tutti in provincia di Brescia): e stiamo parlando del lago presso la foce di un canale vicino la spiaggia in località Le Rive a Salò; della foce di un torrente nei pressi del porto di Padenghe sul Garda e della foce di un rio nell’Oasi San Francesco del Garda a Desenzano. Due punti sono, invece risultati “inquinati”: e sono la foce del torrente Toscolano sul lungolago di Toscolano Maderno e la foce di un torrente al fianco del porto in località Santa Maria di Lugana a Sirmione. Località quest’ultima per la prima volta monitorata dalla Goletta di Legambiente. Infine, entro i limiti di legge previsti dalla normativa vigente in Italia sulle acque lacustri, risultano positivamente essere gli altri due punti campionati sulla sponda lombarda: e cioè il lungo lago Cesare Battisti di Desenzanino e l’ inizio della passeggiata Maratona-Rivoltella, entrambi a Desenzano del Garda. Legambiente commenta il suo monitoraggio dichiarando che “anche in questa edizione di Goletta dei Laghi si riconfermano, purtroppo, le criticità rilevate negli anni scorsi, legate a torrenti e canali che dall’entroterra portano reflui non depurati al lago: dopo così tanti anni di segnalazioni sembra, dunque, vi sia stata una sottovalutazione dei problemi segnalati”. L’Organizzazione ambientalista chiede, pertanto, alle autorità competenti di indagare su questo fenomeno, uscendo dalla annosa questione relativa alla progettazione del nuovo sistema di depurazione ed eliminando lo spostamento dei reflui dal Lago di Garda a Gavardo, nell’entroterra. Serve, quindi, continua Legambiente, “concentrarsi sulle soluzioni che tengano conto anche delle mutate condizioni territoriali dovute agli impatti del cambiamento climatico, così da garantire la sicurezza del lago e l’adeguatezza della depurazione dei reflui”. Molto meglio, invece, la situazione in Veneto, dove tutti i sei punti monitorati presentano concentrazioni inferiori rispetto ai limiti di legge previsti dalla normativa vigente in Italia sulle acque lacustri. I dati di quest’anno riferiti alla sponda veneta del Garda indicano, infatti, una situazione migliore rispetto a quella delle scorse edizioni di Goletta dei Laghi, con le acque che, se confrontate con la serie storica, risultano essere meno inquinate da escherichia coli. Sempre Legambiente segnala però il fatto che l’attuale momento di grave siccità potrebbe aver portato i depuratori ad avere meno perdite e, di conseguenza, la rete idrica secondaria a condurre meno reflui zootecnici. Comunque, sulla base dei risultati complessivi dei campionamenti effettuati sia sulla sponda veneta, che su quella lombarda, Legambiente sottolinea l’esigenza fondamentale di arrivare ad una gestione unitaria del Garda, con standard e obiettivi da raggiungere attraverso azioni coordinate, poiché “ il lago non può essere considerato un elemento dove passano confini territoriali, ma va piuttosto inquadrato come un unico grande ecosistema”.
Gli incendi hanno bruciato “il triplo degli ettari del 2020” | 04/07/2022 | Sostenibilità
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Gli incendi hanno bruciato “il triplo degli ettari del 2020” | 04/07/2022 | Sostenibilità
L'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che fa capo al ministero della Transizione ecologica) rende noto che l’ondata di incendi che ha colpito l’Italia nel 20211 ha bruciato “il triplo degli ettari del 2020”, soprattutto nel Mezzogiorno. La regione più martoriata è stata la Sicilia, mentre la Sardegna è quella che ha registrato l’incendio più vasto. Sempre l’Ispra precisa che, negli ultimi vent'anni, il 40-50% del territorio colpito da incendio è risultato costituito da foreste: e poiché 1/3 del territorio nazionale è ricoperto da foreste (circa 8,5 milioni di ettari), nel 2021 è bruciata in totale una superficie pari allo 0,5% del territorio stesso. Tra l’altro, nelle aree protette nazionali, gli effetti degli incendi del 2021 hanno interessato un'ampia porzione di ecosistemi forestali ( e cioè il 32% dell'area totale bruciata ). Nello specifico, durante il 2021, i parchi nazionali hanno contribuito ad una potenziale perdita di copertura arborea pari a circa il 57% di tutte le aree forestali bruciate nelle aree protette italiane ( e stiamo parlando di siti Rete Natura 2000 e di Riserve e parchi naturali regionali). Uno dei siti maggiormente colpiti l’estate scorsa è stato il Parco Nazionale dell'Aspromonte, dove è andato in fumo circa il 10% del patrimonio boschivo, attaccando peraltro due boschi vetusti: la Faggeta di Valle Infernale (patrimonio mondiale dell'Umanità Unesco) e il Bosco di Acatti, entrambi custoditi all'interno dell'area protetta. La Sicilia - che come si diceva è stata la regione più penalizzata - ha subito incendi su circa il 3,5% della sua superficie complessiva, coinvolgendo il 60% dei comuni dell'isola (su un totale di 235 comuni). La seconda area più colpita dalle fiamme nel 2021 è risultata, invece, essere la Calabria, per una superficie pari al 2,4% del suo territorio, con 240 comuni interessati. Questa regione ha subìto, in termini di superficie totale di boschi bruciata, il maggiore impatto per incendi pari al 37% dell'area totale: ed a questo proposito, l’Ispra segnala che, di questi siti bruciati, 1/4 è costituita da boschi di conifere. La Sardegna segue al terzo posto tra le regioni più colpite per aree forestali bruciate rispetto al contesto nazionale: nel 2021 è stata interessata da soli 40 eventi (rispetto, ad esempio, ai circa 500 della Sicilia), ma in un unico incendio, avvenuto a fine luglio nel complesso Forestale Montiferru-Planargia, è stato travolto dalle fiamme circa il 63% del totale del territorio interessato da incendi della Regione, risultando così l'incendio più esteso in tutta Italia in termini di area bruciata e coinvolgendo 10 comuni del Montiferru, con gravissimi danni sia economici e sociali, che ambientali. Scrive l’Ispra che “il legame tra cambiamenti climatici e incendi è complesso: pertanto, non vanno considerati solo gli effetti diretti della siccità prolungata e delle alte temperature, ma anche quelli del clima sugli insetti e sulle malattie delle piante, che le rendono più vulnerabili, facendole, quindi, ancora e, quindi, più suscettibili agli incendi. Inoltre, gli effetti e i danni agli ecosistemi forestali causati dagli incendi possono accelerare i processi di perdita di biodiversità, il rilascio di anidride carbonica, l’aumento del rischio idrogeologico, l’erosione del suolo, oltre all’ inquinamento da polveri dell'aria e dei corpi idrici”.
In Italia viene raccolto solo un terzo degli olii alimentari esausti | 01/07/2022 | Sostenibilità
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In Italia viene raccolto solo un terzo degli olii alimentari esausti | 01/07/2022 | Sostenibilità
In Italia viene raccolto solo un terzo degli olii alimentari esausti: per l’esattezza, 80.000 tonnellate all'anno su 240.000. Colpa della scarsità dei punti di raccolta, che sono solamente 1.500 in tutto il Paese, vale a dire 1 ogni 39.000 abitanti. Il che fa perdere ogni anno 16 milioni di euro per il mancato riciclo: l’Italia utilizza 200.000 tonnellate all'anno di olii esausti, in gran parte importati, per produrre soprattutto biocarburanti. Ma soprattutto, 1 kg di olio vegetale esausto buttato nella fogna può inquinare una superficie d'acqua di 1.000 metri quadrati. Sono questi alcuni dei dati forniti dal web magazine “EconomiaCircolare.com” e dall'app “Junker “nel dossier intitolato “Scusa, mi ricicli l'olio?”. Tutto l'olio raccolto – spiega la presidenza di Ren Oils, il consorzio di recupero degli olii vegetali esausti - viene recuperato e riutilizzato: non se ne perde, infatti, neanche una goccia. Opportunamente trattato, questo rifiuto speciale può tornare a nuova vita sotto diverse forme: soprattutto come biodiesel, ma anche come bio-lubrificanti per macchine agricole o nautiche, saponi, prodotti cosmetici e inchiostri. RenOils stima che “se gli oli venissero raccolti da tutte le famiglie e tutti i ristoranti, in Italia potremmo raccogliere tra le 230 e le 240mila tonnellate annue”. Invece, come si è detto, se ne riescono a recuperare appena 80mila tonnellate. Ogni goccia d'olio fatta sparire nello scarico rappresenta una minaccia per gli ecosistemi: 1 kg di olio vegetale esausto può, infatti, inquinare una superficie d'acqua di 1.000 mq, per non parlare, infine, dei danni alla rete fognaria e al sistema di depurazione.
Dare la priorità al cibo rispetto al carburante | 29/06/2022 | Sostenibilità
29-06-2022
Dare la priorità al cibo rispetto al carburante | 29/06/2022 | Sostenibilità
Le associazioni ambientaliste europee associate al network di “Transport&Environment” hanno esortato i governi del G7 a dare la priorità al cibo rispetto al carburante e a porre fine immediatamente all'uso dei biocarburanti in competizione con le produzioni alimentari. A renderlo noto è un comunicato di Legambiente, nel quale si ricorda come “anche in Italia usiamo circa un milione di tonnellate di olio di palma: delle quali metà viene miscelata nel gasolio dei motori diesel e l'altra metà viene utilizzata per produrre elettricità verde”. In entrambi i casi – spiega Legambiente - si tratta di autentico "greenwashing", come del resto ha confermato la causa vinta dalla stessa Legambiente, contro il “biodiesel” di Eni del gennaio 2019. Cereali e semi oleosi costituiscono, infatti, alimenti per il miliardo di esseri umani più poveri e non devono, quindi, diventare una fonte energetica “per lavare – scrive sempre l’Organizzazione ecologista - la coscienza dei governi statunitensi ed europei”. L'Italia e l'Europa debbono, pertanto, togliere subito gli incentivi ai biocarburanti, poichè si tratta di falsi rinnovabili. Di fronte ad una crisi alimentare globale, l’appello inviato al G7 afferma che non ci si può permettere di bruciare cereali e oli vegetali nei serbatoi delle nostre auto. Ed il Governo italiano - che ha spesso manifestato la preoccupazione di una crisi alimentare - dovrebbe unirsi a Regno Unito e Germania che hanno annunciato l'intenzione di limitare i biocarburanti da coltura. “In questi tempi di guerra – conclude Legambiente - i biocarburanti vengono, infatti, spesso presentati come un'alternativa al petrolio, ma la realtà è che arrivano a costare quasi il doppio dei combustibili fossili”.
Lo svolgimento a Lisbona l’Ocean Conference dell’Onu | 28/06/2022 | Sostenibilità
28-06-2022
Lo svolgimento a Lisbona l’Ocean Conference dell’Onu | 28/06/2022 | Sostenibilità
E’ in corso di svolgimento a Lisbona l’Ocean Conference dell’Onu, ospitata quest’anno dal Portogallo in collaborazione col Kenya: si tratta di un evento di rilevanza mondiale che si concluderà venerdì primo luglio e che vede la partecipazione dei governi, delle organizzazioni della società civile e dei partner del settore imprenditoriale e associativo. Tutti riuniti allo scopo di confermare il proprio impegno nell’assumere un ruolo attivo nel raggiungimento dei traguardi fissati dall’obiettivo di sviluppo sostenibile n° 14 dell’ONU: quello che cioè concerne la “Salvaguardia della Vita Marina”. Tra i vari enti partecipanti alla Conferenza figura anche Legambiente, la quale, nella consapevolezza del momento così critico e decisivo per il futuro degli oceani e dei mari, si è detta “particolarmente orgogliosa di poter confermare la sua partecipazione attiva alla Conferenza di Lisbona anche organizzando il side event online “Scienza e conoscenza: una rete a tutela del Mediterraneo contro i rifiuti marini””, che si terrà proprio oggi, 28 giugno. Coerentemente con l’accordo sottoscritto unitamente all’Università di Siena nel 2017 alla prima Ocean Conference di New York, durante questo evento online Legambiente intende presentare i progressi ottenuti finora nella tutela della salute del Mediterraneo, con particolare attenzione al tema dei rifiuti dispersi nel mare e lungo le coste. L’Organizzazione ambientalista italiana ricorda che “gli oceani e i mari sono stati spesso considerati come fonte di materie prime illimitate in grado di sostenere la crescita industriale, ma anche di assorbire la produzione incontrollata di qualsiasi tipo di rifiuto. Ma negli ultimi anni, in particolare, le plastiche sono diventate una grave minaccia crescente per l’ambiente marino, con effetti letali per le specie marine e con potenziali minacce per la salute umana”. Infatti, i rifiuti intrappolano, feriscono o vengono ingeriti dagli organismi acquatici ed offrono trasporto alle specie aliene per raggiungere ambienti estranei al loro ambiente originale: tuttavia, il problema più grande è quello che le plastiche non scompaiono, ma rimangono, invece, per decenni nell’ambiente e si frammentano in pezzi sempre più piccoli, impossibili da rimuovere e da individuare. E stiamo parlando delle microplastiche (frammenti di dimensione minore di 5 mm), che – come spiega Legambiente - “hanno una via facilitata per entrare nella catena alimentare e contaminarla”. Durante l’evento i relatori non si limiteranno a fornire delle informazioni per accrescere la consapevolezza circa il fenomeno dei rifiuti marini, ma avranno anche l’occasione di confrontarsi sulla possibilità di realizzare nuovi strumenti e attività che sappiano coniugare scienza e campagne di sensibilizzazione. La finalità è, quindi, quella di promuovere un nuovo approccio partecipativo che coinvolga le parti interessate e le comunità locali, con l’ambizione di sperimentare un modello potenzialmente trasferibile a tutto il bacino mediterraneo.
”1992 – 2022. Dalla terra alla Terra: visioni, esperienze e prospettive” | 25/06/2022 | Sostenibilità
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”1992 – 2022. Dalla terra alla Terra: visioni, esperienze e prospettive” | 25/06/2022 | Sostenibilità
Il CIC (Consorzio Italiano Compostatori), per celebrare il suo trentesimo anno di attività, ha presentato a Roma l’evento “”1992 – 2022. Dalla terra alla Terra: visioni, esperienze e prospettive”. Nel corso della manifestazione, è emerso che il CIC, nei suoi primi 30 anni di operatività, ha raccolto oltre 100 milioni di tonnellate di rifiuti organici, trasformandole in 35 milioni di tonnellate di compost, con 65 milioni di tonnellate di CO2 equivalente evitate. Durante l’incontro, il CIC ha fatto il punto sulla bioeconomia in Italia, con particolare riferimento alla filiera del biowaste che, dal rifiuto organico, è in grado di produrre sia il fertilizzante rinnovabile come il compost, che il combustibile sostenibile come il biometano. Nel nostro Paese, la raccolta della frazione organica (umida e verde) costituisce il 40% dei rifiuti urbani raccolti in maniera differenziata e nello specifico, nell’ultimo decennio, ha fatto registrare una crescita media annua del 7%. Inoltre, dalla trasformazione dei rifiuti organici, nel 2020 si sono ricavate circa 2,18 milioni di tonnellate di compost e 370 milioni di metri cubi di biogas: e questi ultimi sono stati a loro volta utilizzati attraverso la produzione di circa 437,5 Megawatt di energia elettrica, di 128,7 Megawatt di energia termica e di 93 milioni di metri cubi di biometano destinato all’autotrazione. Ipotizzando una raccolta differenziata a pieno regime su tutto il territorio nazionale, il CIC stima che il Bel Paese, nel 2025, potrebbe arrivare a produrre più di 9 milioni di tonnellate all’anno di frazione organica, portando così il settore del biowaste a 13.000 addetti e generando un indotto di circa 2,5 miliardi di euro. Per quanto concerne, invece, il sistema impiantistico, va detto in Italia sono presenti 359 impianti (294 di compostaggio e 65 che includono una sezione di digestione anaerobica), la cui capacità autorizzata disponibile per il trattamento di umido e verde ammonta, nel 2020, a circa 9.300.000 tonnellate annue: superiore, quindi, non solo ai rifiuti raccolti nello stesso anno ma anche alle 9.077.000 tonnellate annue che saranno raggiunte una volta completate le raccolte differenziate in tutta la Penisola. “Nel nostro Paese – spiega la direzione del CIC - la filiera del recupero dei rifiuti organici ha raggiunto il sostanziale equilibrio tra la richiesta di conferimento dei produttori di rifiuto organico e la capacità di trattamento degli impianti, con le aziende, sia pubbliche che private, che si stanno muovendo nella direzione giusta. Ed anche al Centro e al Sud - aree sinora ancora carenti di impiantistica dedicata – si sta lavorando per ampliare o costruire ex novo impianti integrati con relativa produzione di compost e biometano”. La crisi ucraina ha evidenziato l’estrema dipendenza dell’Italia da materie prime ed energia, con la conseguente necessità di promuovere e incentivare anche la diffusione di gas rinnovabili ed a basse emissioni di carbonio, quale appunto è il biometano. Secondo il CIC l’Italia, intensificando la produzione domestica di biometano derivante dai rifiuti organici e dai residui agricoli, potrebbe arrivare in pochi anni a realizzarne circa 2-3 miliardi di metri cubi annui: infatti, tra costruzioni ex novo e soprattutto ammodernamenti, sono oltre 50 gli impianti di produzione di biometano da frazione organica che risultano ormai pronti per diventare pienamente operativi.
Il consumo della carne non dovrebbe essere finalizzato dal denaro pubblico | 24/06/2022 | Sostenibilità
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Il consumo della carne non dovrebbe essere finalizzato dal denaro pubblico | 24/06/2022 | Sostenibilità
Più della metà dei cittadini europei, italiani compresi, ritiene che le campagne che promuovono il consumo di carne non dovrebbero essere finanziate con denaro pubblico. E’ quanto rivela un sondaggio commissionato da Greenpeace France e realizzato in 8 Paesi europei, compresa l’Italia, proprio nel momento in cui la Commissione europea sta valutando se continuare a finanziare campagne pubblicitarie per prodotti a base di carne nell’ambito della sua politica di promozione dei prodotti agricoli. Greenpeace ricorda che “solo negli ultimi cinque anni, la Commissione ha speso 143 milioni di euro di fondi europei per promuovere prodotti a base di carne”. Quasi il 51% degli intervistati ritiene che le campagne di promozione per aumentare il consumo di carne non dovrebbero essere finanziate dagli enti pubblici. Ed in Italia questa percentuale sale al 53%, mentre i favorevoli sono il 19%. Inoltre, il 49% dei cittadini europei (in Italia il 45%) pensa che il marketing delle aziende che commercializzano carne non dovrebbe essere rivolto ai bambini. Circa il 45% degli intervistati (il 48% in Italia) è d’accordo sul fatto che i supermercati non dovrebbero essere autorizzati a promuovere la “carne a basso costo” o a pubblicizzare, comunque, forti sconti sui prodotti a base di carne: e, nel complesso, il 40% degli Europei è d’accordo anche nel limitare la promozione della carne in generale. Il maggior sostegno alle restrizioni è stato rilevato in Italia (47%), Francia (45%) e Polonia (43%), mentre in Danimarca (30%) e Spagna (32%) si registra un’adesione inferiore. In Italia un cittadino su due ritiene che i governi nazionali e l’Unione Europea dovrebbero adottare misure per fare in modo che venga prodotta meno carne, a causa degli impatti ambientali e sanitari della produzione intensiva: solo il 23% sarebbe contrario a tali interventi, a fronte del 30% in Europa. Il 58% degli Italiani pensa, inoltre, che sarebbero opportune anche misure per favorire un minor consumo di carne, mentre solo il 18% sarebbe contrario. Una posizione, quindi, più netta rispetto alla media europea, che vede un 48% di favorevoli e un 27% di contrari. Il 36% del campione interpellato (in Italia il 39%) è anche d’accordo sul fatto che le aziende che commercializzano carne non dovrebbero essere autorizzate a sponsorizzare eventi pubblici o a fare pubblicità in spazi pubblici. In conclusione, secondo il sondaggio di Greenpeace, “gli Europei sono abbastanza consapevoli degli impatti negativi della produzione intensiva di carne, latticini e uova sul benessere degli animali (68%) e sulla salute umana (60%), ma meno degli impatti sul clima (52%), sulle foreste e sulla natura (50%) e sulla qualità dell’acqua e dell’aria (54%). La consapevolezza è generalmente più alta in Germania, Svizzera e Francia, mentre in Spagna, Polonia e Danimarca è più bassa. L’Italia, rispetto alla media europea, mostra un livello di consapevolezza più alto rispetto agli impatti sulla salute (71%) e sul benessere animale (72%), e leggermente più basso rispetto agli impatti sul clima (49%)”. In tutti i Paesi la consapevolezza è, comunque, più diffusa tra le persone con un livello di istruzione più elevato e tra le donne.
Il Governo sta lavorando a un "piano acqua" | 23/06/2022 | Sostenibilità
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Il Governo sta lavorando a un "piano acqua" | 23/06/2022 | Sostenibilità
Il Governo sta lavorando a un "piano acqua" in raccordo con le Regioni. Ad annunciarlo è la ministra per il Sud e la Coesione territoriale Mara Carfagna, mentre il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani esprime le sue preoccupazioni per le conseguenze sull'idroelettrico. Per gli operatori del settore, tuttavia, finora non ci sono criticità. Carfagna ha dichiarato che l’emergenza idrica non coglie il Governo impreparato, poichè sono sei mesi che Ministeri e Regioni lavorano ad un “piano acqua” che sostenga l'intera filiera, dagli invasi agli acquedotti alle utenze finali. Il piano prevede un investimento iniziale di un miliardo a valere sul ciclo 2021 – 2027 del Fondo di Sviluppo e Coesione, ma potrà anche essere incrementato ulteriormente. L'emergenza idrica è stata, nell’ultimo anno e mezzo, una delle priorità di azione del ministero della Coesione Territoriale che ha focalizzato sugli interventi idrici il primo programma di solidarietà europea dopo la pandemia: e cioè React Eu. E non a caso, pochi giorni fa, con la definizione della graduatoria dei progetti, è partito un intervento di ammodernamento e ristrutturazione delle reti idriche della Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata per 482 milioni. Tuttavia, il problema dell’inadeguatezza degli invasi e degli acquedotti colabrodo non riguarda solo il Mezzogiorno: ecco perché sta cominciando a prendere forma anche un Consorzio Italia Servizi di portata nazionale, che si propone di restituire a centinaia di migliaia di cittadini, agricoltori e imprese la certezza sull'erogazione anche nei periodi di maggiore siccità. Per quanto, invece, concerne strettamente la disponibilità di acqua per il settore idroelettrico, l’ENEL fa sapere che ormai essa è ormai giunta “ agli sgoccioli”: tutta la disponibilità è stata, infatti, impiegata dagli operatori del settore per coprire la necessità del comparto agricolo nei prossimi 10 giorni. L'acqua è, dunque, finita e tutta quella a disposizione è stata già ripartita nel tempo richiesto. Per parte loro, i governatori delle Regioni intendono tornare a chiedere lo stato di emergenza al Governo per avere il supporto a livello nazionale della Protezione Civile. L’orientamento, che è emerso nella Conferenza delle Regioni, mira pertanto ad attivare lo stato di emergenza per la siccità con provvedimenti specifici che puntino, fin da subito, a razionare l'acqua in favore di un maggior uso destinato a scopi umani (di prima necessità) e agricoli: anche per allontanare la prospettiva di un'immediata chiusura di parchi acquatici, piscine o la disattivazione di fontane monumentali. Dall'esecutivo è, comunque, arrivata la rassicurazione del sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, secondo il quale ci sono le condizioni per arrivare a dichiarare lo stato di emergenza. Il sottosegretario – parlando in televisione – ha, infatti, osservato che la preoccupazione delle Regioni è giustificata e che, quindi, il Governo condividerà un percorso con loro. E’ indispensabile – ha concluso Costa - sostenere soprattutto il comparto agricolo, che non è solo produttivo, ma assolutamente vitale per il nostro Paese, grazie al presidio e alla manutenzione che esercita su tutto il nostro territorio".
I risultati di “World Health Statistics 2022” | 22/06/2022 | Sostenibilità
22-06-2022
I risultati di “World Health Statistics 2022” | 22/06/2022 | Sostenibilità
Come è noto, negli ultimi 20 anni a livello mondiale sono aumentate sia l’aspettativa di vita alla nascita, che la possibilità di vivere in buona salute. E’ però, probabile che la pandemia abbia prodotto effetti negativi su entrambe, rallentando o addirittura invertendo i progressi raggiunti in alcuni aspetti della salute della popolazione. Ad affermarlo è il “World Health Statistics 2022”, il rapporto annuale sulle statistiche sanitarie globali dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità che verrà pubblicato domani, 22 giugno. Il documento analizza l’impatto del Covid sui sistemi sanitari, sulle cause dei decessi e sui fattori di rischio per la salute. L’Oms stima a livello globale oltre 500 milioni di casi, con più di 6,2 milioni di decessi correlati. Le segnalazioni di contagi da Covid-19 prevalgono nei Paesi a reddito alto e medio-alto, nei quali i decessi riguardano soprattutto le persone economicamente svantaggiate, con più di 60 anni, vulnerabili e con patologie preesistenti. In data 25 aprile 2022, risulta aver completato il primo ciclo di vaccinazione soltanto il 12% dei cittadini dei Paesi a basso reddito, contro il 51% e il 74% rilevati nei gruppi socioeconomici più agiati (rispettivamente nei Paesi a reddito medio-alto e in quelli ad alto reddito). Eppure, spiega il rapporto, “nell'ultima parte del 2021 e all'inizio del 2022, la fornitura globale di vaccini è aumentata a tal punto che l'offerta non è stata più un problema”. Tanto è vero che, ad inizio 2022, c'erano vaccini sufficienti per tutelare ogni adulto ed ogni adolescente nel mondo con tutte e tre le dosi. Inoltre, anche le interruzioni nei servizi sanitari sono state più frequenti nei Paesi meno sviluppati. Milioni di persone hanno, pertanto, perso l’assistenza sanitaria essenziale, in termini di prevenzione, diagnosi e controllo delle malattie. Si prevede così che la pandemia arresterà i progressi compiuti, negli ultimi anni, nella copertura dei servizi ed accentuerà le difficoltà finanziarie di chi è costretto a pagarsi le spese sanitarie in proprio. Le malattie non trasmissibili rimangono la principale causa di decessi a livello globale, però, nei Paesi ad alto reddito, le morti dovute ad esse sono l’85% del totale, mentre nei Paesi a basso reddito le malattie trasmissibili risultano ancora responsabili di circa la metà (46,8%) dei decessi. Per quanto riguarda l’indice di copertura sanitaria universale, l’Oms segnala che, negli ultimi 20 anni, è migliorato, passando da 45 nel 2000 a 67 nel 2019. Tuttavia, a causa della pandemia, si prevede una battuta d’arresto sia nei progressi registrati dall’indice, che, più in generale, dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu relativi alla salute. Inoltre, la percentuale della popolazione con spese sanitarie che superano il 10% del budget familiare è salita dal 9,4% nel 2000 al 13,2% nel 2017: ed a questo proposito, secondo le stime del 2017, sono oltre 435 milioni le persone spinte ulteriormente nella povertà estrema a causa proprio delle spese sanitarie sostenute con mezzi personali. Per quanto concerne l’Italia, nel 2019, l’indice di copertura sanitaria universale era pari a 83 e, quindi, oltre la media globale: tuttavia l’Oms consiglia di rafforzare gli interventi di prevenzione e gestione dei fattori di rischio come l’uso di alcol e tabacco. Il Rapporto dell’Oms si conclude affermando che il mondo è “fuori strada” per raggiungere, entro il 2023, il cosiddetto “Obbiettivo Triplo Miliardo”, che consiste in un miliardo in più di persone che beneficiano della copertura sanitaria universale, in uno in più protette dalle emergenze sanitarie ed in un altro miliardo in più di individui che godono di salute e benessere migliori. E per oggi ci fermiamo qui, in attesa di rincontrarvi per una nuova edizione di sostenibilità e dintorni
L'Italia è stata colpita da 4 gravissimi eventi legati alla siccità | 20/06/2022 | Sostenibilità
20-06-2022
L'Italia è stata colpita da 4 gravissimi eventi legati alla siccità | 20/06/2022 | Sostenibilità
Un comunicato emesso da Legambiente in occasione della Giornata Mondiale per la lotta alla desertificazione, ci informe sul fatto che l'Italia, negli ultimi 25 anni, è stata colpita da 4 gravissimi eventi legati alla siccità (rispettivamente nel 1997, 2002, 2012, 2017). E si tratta di calamità che hanno causato costi per oltre 5 miliardi di dollari ( per l’esattezza, 5.297.496.000 dollari), dovuti, per il 48%, alla crisi idrica del 2017. Secondo gli ultimi studi della Commissione Europea - prosegue Legambiente - il numero di persone in Europa che vivono in aree considerate sotto stress idrico per almeno un mese all'anno potrebbe passare dai 52 milioni attuali (11% della popolazione europea) a 65 milioni in uno scenario di riscaldamento di 3°C, il che equivarrebbe al 15% della popolazione dell'Unione Europea. La maggior parte delle persone esposte a stress idrico vive nei paesi dell'Europa meridionale: e per la precisione, 22 milioni in Spagna ( 50% della popolazione nazionale), in Italia (15 milioni; 26% della popolazione), in Grecia (5,4 milioni; 49% della popolazione) e in Portogallo (3,9 milioni; 41% della popolazione). Invece, le intere popolazioni di Cipro e Malta sono considerate in carenza d'acqua. Nel Mediterraneo il periodo di stress idrico può andare oltre i 5 mesi e, durante l'estate, lo sfruttamento dell'acqua può avvicinarsi al 100%. L'emergenza siccità e la scarsità di acqua – spiega la presidenza di Legambiente - sono due problemi con i quali l’Italia dovrà convivere. Per questo motivo, serve innanzitutto rivedere gli usi e i consumi, puntando ad una diminuzione dei prelievi ed ad un efficientamento degli usi. Una siccità prolungata comporta, infatti, danni diretti derivanti dalla perdita di disponibilità di acqua per usi civili, agricoli e industriali, ma anche una riduzione di biodiversità, minori rese delle colture agrarie e degli allevamenti zootecnici, con perdita di equilibrio degli ecosistemi naturali.
Pareri discordanti sull’obiettivo “zero emissioni” | 18/06/2022 | Sostenibilità
18-06-2022
Pareri discordanti sull’obiettivo “zero emissioni” | 18/06/2022 | Sostenibilità
I managers del settore energetico esprimono pareri discordanti sul momento in cui si riuscirà a raggiungere, a livello globale, l’obiettivo “zero emissioni”. Se, infatti, una parte di essi ( e cioè il 42% ) prevede che il traguardo sia possibile entro il 2050, un altro 25% ritiene, invece, che non lo sarà prima del 2070. In media sono, comunque, portati a pensare che lo stato “net zero” non sia realizzabile prima del 2057. A rendere noti questi dati è il secondo Annual Energy Report di Bain & Company, che ha analizzato le aspettative di oltre mille professionisti selezionati in 45 Paesi, rilevando diverse perplessità legate al percorso della transizione energetica, soprattutto in considerazione delle gravi difficoltà che caratterizzano l’attuale scenario economico e politico. I manager del settore - evidenzia Bain & Company - prevedono oggi una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 28% entro il 2030: tuttavia, stimano che il net zero non si raggiungerà prima del 2057, sebbene le aziende intendano destinare in media il 23% del capitale a nuove iniziative imprenditoriali a sostegno e in risposta alla transizione energetica, rispetto al 16% previsto nel 2020. Ciò significa che, in un solo anno, le imprese hanno deciso di destinare oltre il 40% in più delle proprie risorse a questo percorso. Pertanto, la volontà di accelerare indubbiamente c’è, ma “bisogna passare in modo deciso dalla pianificazione all’attuazione”. Il rapporto segnala, inoltre, che alcuni comparti industriali sono rimasti notevolmente indietro riguardo a questi temi. Si pensi, ad esempio, al caso della plastica di cui, al ritmo attuale, secondo la ricerca, verrà riciclato soltanto il 14% entro il 2030: ben al di sotto cioè degli obiettivi. Quindi, nonostante si tratti di un mercato con enormi potenzialità di crescita, i numeri dimostrano che la plastica riciclata al 2030 rappresenterà meno del 15% dell’offerta totale: e, tra l’altro, questo disallineamento fra domanda e offerta potrebbe anche – come ipotizza l’indagine - far lievitare i prezzi. Sempre Bain & Company segnala che “la profonda revisione dell’impronta di carbonio farà sì che le aziende del settore energetico saranno materialmente diverse entro il 2030. Le implicazioni di questa trasformazione saranno significative, così come le opportunità. E non a caso, tre manager su quattro ritengono, infatti, che, entro il 2030, gestiranno nuove attività: e per la precisione, il 62% pensa ad integrazione ed il 10 % in sostituzione di quella che oggi considerano la principale. I manager hanno inoltre indicato sette fattori chiave destinati ad avere l’impatto maggiore sulle loro attività entro il 2030, mettendo in ordine graduatorio le energie rinnovabili (79%), le pratiche biologiche e rigenerative (77%), la circolarità (75%), lo stoccaggio dell’energia (73%), l’intelligenza artificiale (67%), l’utilizzo e lo stoccaggio di carbonio (63%) ed i prodotti “bio based” (60). Ovviamente – si legge nel rapporto - tutti i “cambiamenti legati alla transizione energetica richiedono una profonda revisione del modello operativo e delle competenze nei player del settore”. Ed a questo proposito, Bain & Company sottolinea come il nostro Paese soffra della “ mancanza storica di un vero piano industriale energetico”. Per cui diventa sempre più importante “ iniziare da subito a programmare e ad investire in modo continuativo, allineando quadri normativi e azioni imprenditoriali, per accelerare e quindi traguardare indipendenza e transizione energetica”.
Il 28% del territorio italiano è a rischio desertificazione | 15/06/2022 | Sostenibilità
15-06-2022
Il 28% del territorio italiano è a rischio desertificazione | 15/06/2022 | Sostenibilità
Il 28% del territorio italiano è a rischio desertificazione: il problema si pone particolarmente nelle regioni meridionali, ma anche in Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. La notizia è stata data nel corso di un webinar dell'Ispra (l'istituto Superiore per la Ricerca e al Protezione Ambientale), in vista della Giornata Mondiale dell'Onu per la lotta a desertificazione e siccità, il 17 giugno. Nelle aree a rischio in Italia, le condizioni meteoclimatiche incidono pesantemente sull’aumento del degrado (e, quindi, anche sulla vulnerabilità alla desertificazione), a causa della perdita di qualità degli habitat, dell'erosione del suolo, della frammentazione del territorio e della densità delle coperture artificiali. Secondo le stime del Global Land Outlook, nel mondo il 70% delle aree libere da ghiacci è stato alterato dall'uomo, con conseguenze dirette e indirette su circa 3,2 miliardi di persone e si teme che, entro il 2050, la suddetta quota possa raggiungere il 90%. Attualmente circa 500 milioni di persone vivono in aree dove il degrado ha raggiunto il suo massimo livello, provocando quella perdita totale di produttività che viene definita “desertificazione.” L'Africa – e soprattutto la zona che si trova a sud del Sahara - è la più colpita da questo fenomeno: il 73% delle terre aride coltivabili risultano, infatti, già degradate o del tutto desertificate. Anche Asia, Medio Oriente, Sud America presentano un elevato rischio di degrado del suolo: e persino Paesi fortemente sviluppati, come gli Stati Uniti o l'Australia, comprendono aree in cui ci si avvicina alla desertificazione, come, ad esempio, gli Stati centrali e occidentali degli USA. Nell'Unione Europa, i Paesi più coinvolti da desertificazione e siccità sono quelli del bacino Mediterraneo: dunque, non solo l’Italia, ma anche Spagna, Portogallo, Grecia, Croazia, Cipro e Malta. Ma colpite da analoghi fenomeni risultano pure l'Ungheria, la Slovenia e la Romania.
Il futuro che vogliamo | 14/06/2022 | Sostenibilità
14-06-2022
Il futuro che vogliamo | 14/06/2022 | Sostenibilità
Si è conclusa la riunione a livello ministeriale del Consiglio dell’Ocse ( l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ), presieduta dall’Italia e dedicata al tema “Il futuro che vogliamo: politiche migliori per la prossima generazione e transizione sostenibile”. All’incontro hanno partecipato i ministri dell’Economia, degli Esteri e del Commercio dei Paesi membri e dei Paesi partner dell’Organizzazione, cogliendo lo spunto per fare il quadro sulle prospettive economiche internazionali. “Il mondo – scrive l’Ocse nel rapporto pubblicato per l’occasione – pagherà un duro prezzo per la guerra della Russia contro l’Ucraina. Dinanzi ai nostri occhi si sta svolgendo una crisi umanitaria che ha stroncato migliaia di vite e costringe milioni di rifugiati a lasciare il proprio Paese, mettendo a repentaglio la ripresa dell’economia, che era appena iniziata dopo due anni di pandemia”. Tra l’altro, il conflitto in corso tra due grandi esportatori di materie prime, ha accelerato l’aumento già in atto dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari, determinando un calo della crescita economica ed un aumento dell’inflazione. Il rapporto stima che la crescita globale sarà del 3% nel 2022 (in calo rispetto al 4,5% previsto lo scorso dicembre) e del 2,8% nel 2023. Inoltre, le proiezioni per il 2022 indicano attualmente un’inflazione pari quasi al 9% nei Paesi dell’Ocse, il doppio cioè rispetto alle precedenti previsioni. Per quanto riguarda l’Italia, il nostro Paese risulta particolarmente esposto, registrando una performance peggiore della media Ocse: si prevede, infatti, una crescita del Pil nazionale del 2,5% nel 2022 e dell’1,2% nel 2023. In Italia – spiega sempre l’Ocse - “la guerra inciderà sulla crescita, in quanto l’incremento dei prezzi erode il potere di spesa e la fiducia” e, nel tentativo di far fronte a questo tipo di difficoltà, il Governo ha “introdotto considerevoli misure politiche di sostegno, tra cui la riduzione delle accise e delle aliquote Iva sui prezzi dell’energia, oltre ai crediti d’imposta per gli utenti che consumano elevati quantitativi di energia. Però, così facendo ha innescato una serie di pericolose distorsioni”. Tenere artificialmente più bassi i prezzi dell’energia grazie ai sussidi limita, infatti, i progressi della transizione ecologica ed al tempo stesso questa politica dei sussidi è regressiva perché aiuta più i ricchi (che hanno consumi energetici maggiori) rispetto ai poveri. La ricetta fornita all’Italia dall’Ocse sarebbe quella di “accelerare la transizione verde...eliminando gradualmente i sussidi dannosi per l’ambiente”, poichè il sostegno agli investimenti nell’efficienza energetica e nell’approvvigionamento di energia rinnovabile rafforzerebbe anche la sicurezza energetica. Ciò nonostante, nel nostro Paese le rinnovabili continuano a rallentare, mentre i sussidi ambientalmente dannosi rendicontati dal ministero della Transizione Ecologica restano praticamente inalterati, toccando i 21,6 miliardi di euro all’anno. Per la verità, negli scorsi mesi il Ministero stesso si era impegnato a presentare “un piano di uscita dai sussidi ambientalmente dannosi entro la metà del 2022”, ma, almeno fino ad oggi, del piano non abbiamo avuto notizia. Eppure – stando a calcoli effettuati proprio a livello ministeriale - eliminando questo tipo di sussidi e destinandone almeno 12 miliardi alle energie rinnovabili, si otterrebbero un aumento della crescita economica fino al +1,6% del Pil ed uno sviluppo dell’occupazione fino a +4,2%. Ma non è tutto, perchè i fondi stanziati per i sussidi ambientalmente dannosi, secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale, ammonterebbero addirittura a 41 miliardi di dollari: quasi il doppio, quindi, rispetto a quelli dichiarati dal Governo.
Le tre principali preoccupazioni dei Millennial e della Generazione Z italiani | 13/06/2022 | Sostenibilità
13-06-2022
Le tre principali preoccupazioni dei Millennial e della Generazione Z italiani | 13/06/2022 | Sostenibilità
Secondo l’indagine “Millenial e GenZ Survey 2022”, condotta da Deloitte, il cambiamento climatico, il costo della vita ed il lavoro costituiscono le tre principali preoccupazioni dei Millennial e della Generazione Z italiani. La ricerca ha sondato un campione globale di oltre 23 mila tra Generazione Z (nati tra il 1995 e il 2003) e Millennial (nati tra il 1983 e il 1994) ed ha interessato anche oltre 800 tra ragazze e ragazzi del nostro Paese. I tre elementi fondamentali emersi dai dati raccolti indicano che: 1) il 95% dei Millennial e il 96% della Generazione Z in Italia dichiara di essere disposto a fare uno sforzo per proteggere l’ambiente 2 ) che solamente il 42% della Generazione Z e il 44% dei Millennial italiani è in grado di pagare con tranquillità le spese del mese 3 ) e che il 67% della nostra Generazione Z e il 63% dei nostri Millennial vorrebbe un modello di lavoro ibrido, in cui si possano alternare lavoro in ufficio e da remoto con maggiore flessibilità. I giovani italiani – spiegano i ricercatori di Deloitte - si dimostrano più attenti al cambiamento climatico rispetto alla media globale: e si tratta di un dato in continuità rispetto all’edizione precedente dell’indagine e che fa emergere una sensibilità green che istituzioni e imprese italiane faranno bene a recepire per trasformarle “in proposte di sostenibilità concrete e credibili”. Pertanto, come nell’edizione precedente della Millennial Survey, i giovani del nostro Paese si confermano particolarmente sensibili al tema del cambiamento climatico: infatti, alla domanda su quali fossero, dal loro punto di vista, le cinque più importanti sfide del nostro tempo, il 42% della Generazione Z italiana e il 37% dei Millennial hanno indicato nel cambiamento climatico la questione principale da affrontare e da risolvere urgentemente. Inoltre, sempre dalla ricerca, emerge anche che l’80% della Generazione Z e il 76% dei Millennial italiani ritengono che l’umanità sia ormai giunta al “punto di non ritorno” nella risposta al cambiamento climatico. E a confermare questa sorta di “eco ansia”, che appare sempre più diffusa tra i giovani e giovanissimi, si aggiunge pure il fatto che il 72% della Generazione Z e il 77% dei Millennial afferma di aver vissuto di persona almeno un evento meteorologico grave negli ultimi 12 mesi. Infine, per dare una risposta vincente alla sfida ambientale, sia Generazione Z, che Millennial italiani si dicono disposti a modificare le proprie abitudini di vita. E mentre a livello globale la percentuale di Millennial e Generazione Z che cercano di ridurre il proprio impatto ambientale è quella del 90%, nel caso degli intervistati italiani si arriva a percentuali ancora più elevate, con il 95% dei Millennial e al 96% degli appartenenti alla Generazione Z che affermano di essere impegnati a “fare uno sforzo per proteggere l’ambiente”.