Quando raccontiamo le storie dei grandi campioni, quando cerchiamo di riannodare il filo
delle loro imprese, ci focalizziamo spesso sui gesti tecnici. Sul colpo a effetto, sul numero,
sulla giocata che cattura l’attenzione quando meno ce l’aspettiamo. Facciamo
inconsapevolmente passare in secondo piano un aspetto che invece è fondamentale per
tutto questo: il corpo. Per ogni gesto tecnico che vediamo, dietro c’è un corpo che deve
non solo assecondarlo, ma proprio plasmarlo. Non è solo questione di mente, di intuito,
della capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. C’è anche un corpo da far
funzionare: la giusta coordinazione, lo scatto, il modo di arrivare con i piedi e le gambe sul
pallone prima di calciarlo in rete. E sono corpi, quelli dei calciatori, che vengono martoriati
dallo sforzo. Una fatica che si protrae per anni, una fatica diversa da quella che siamo
abituati a riconoscere in maniera naturale: non è lo sforzo di una persona qualunque che
si alza presto per andare a lavorare i campi, un tipo di pressione che riscontriamo in modo
immediato, che facciamo nostra per empatia, che ci è familiare. Un pensiero comune è
che quelli sono milionari, che è giusto che fatichino ed è ancor più giusto che non si
lamentino. La verità è che i calciatori, come tanti altri sportivi, portano il loro corpo a un
grado di esasperazione talvolta irreversibile. Ogni scatto, ogni conclusione, ogni colpo di
testa, fa alzare l’asticella dell’usura. E poi ci sono i casi estremi, quelli dei calciatori che,
per un motivo o per un altro, finiscono per avere ripercussioni sulla loro vita dopo il calcio.
È il caso di due meravigliosi centravanti che hanno attraversato gli anni Novanta: nel
momento in cui uno dei due iniziava a vivere il momento più difficile, quello che lo avrebbe
poi portato a lasciare prematuramente il calcio, l’altro sbocciava, meraviglioso, bellissimo.
Pur di rinunciare al dolore alla caviglia, pur di riuscire ad avere una vita normale, Marco
Van Basten un giorno decise – sbagliando tragicamente - di farsela bloccare, di rinunciare
alla piena mobilità. Era, secondo lui, il prezzo da pagare per tutti quei tacchetti che
gliel’avevano martoriata. Ma oggi non è di lui che vi voglio parlare, ne del fatto che le cose
per Van Basten sarebbero forse potute andare diversamente, o forse no...Vi parlo di un
uomo che ha legato la propria carriera a un certo tipo di irruenza fisica, un impatto
primordiale con gli avversari e con il pallone, inteso come oggetto da calciare con tutta la
forza che aveva in corpo. E che si è ritrovato, una volta lontano dai riflettori, a dover fare i
conti con delle cartilagini ormai svanite, con il rumore delle ossa che si toccano, con i
dolori allucinanti che tutto questo comporta. Quello tra Gabriel Omar Batistuta e il calcio
non è mai stato un rapporto di amore. È stato un centravanti di mestiere, perché così ha
interpretato lo sport: una professione da onorare, dando in cambio tutto quello che aveva,
cartilagini comprese. E per quella magia che avvolge il mondo del calcio, in cambio ha
ricevuto puro amore.