Cronache Stories

Cronache di spogliatoio

Calcio, cuore, passione, orgoglio, appartenenza. In un'unica parola: emozioni. read less

EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano
21-04-2023
EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano
Venerdì 21 marzo 2003 a Milano è il primo giorno di primavera, come in qualunque altra parte dell'emisfero boreale. 24 ore prima gli Stati Uniti di George W. Bush hanno ufficialmente dato via alle procedure d'invasione dell'Iraq, appoggiata anche dall'Italia, e tutte le città d'Europa hanno risposto con mobilitazioni di massa contro la guerra. Anche a Milano: scioperi, una veglia notturna sul sagrato del Duomo, un corteo di almeno 50mila persone da largo Cairoli fino in Duomo. All'Ospedale Sacco un uomo di rientro dal Vietnam è stato ricoverato per motivi precauzionali: manifesta tutti i sintomi della SARS, la nuova epidemia esplosa a novembre nel Sud-Est Asiatico. Il caldo tarda ad arrivare: minima di 2 gradi, massima di 16, cielo sereno con qualche nuvola nel pomeriggio. Ma intorno a mezzogiorno la temperatura emotiva della città schizza alle stelle: a Nyon c'è il sorteggio del tabellone della fase a eliminazione diretta della Champions League. Il Milan ha una sola possibilità su tre di evitare un derby italiano: beccherà sicuramente una tra Inter, Juventus e Ajax. E invece, per dirla con le parole di Adriano Galliani, succede un miracolo. Un mese dopo, le italiane fanno tutte e tre il loro dovere. Martedì 22 aprile, l'Inter elimina il Valencia dopo 90 minuti di resistenza commovente e un Toldo da 9 in pagella; la Juventus sbanca il Camp Nou con un gol nei tempi supplementari del Panterone Zalayeta. E quando la sera dopo, al 90' appena scoccato, una combinazione Inzaghi-Tomasson manda il Milan in paradiso, il cantore rossonero Carlo Pellegatti non riesce a trattenersi e pronuncia in diretta una frase che potrebbe urlare solo un pazzo, oppure un uomo incredibilmente ottimista. “Siamo in finale!”. Il Milan già sapeva che nell'eventuale semifinale avrebbe affrontato l'Inter... e Pellegatti urla “siamo in finale”. Ma se pensate che in quei giorni tutta Milano, sia la parte rossonera che nerazzurra, proclami spavalda la propria superiorità cittadina, sappiate che siete lontanissimi dalla verità. Come!, diranno i non milanesi, “la città più razionale, ottimista, sbruffona d'Italia, anche lei vittima di queste sciocche scaramanzie”. Tutto vero, tutto nero. Per dirla alla Billy Costacurta, “inizia la settimana peggiore della vita calcistica di Milano”. Immaginiamola come un lungo e angosciante thriller, con i giorni scanditi da scritte bianche su sfondo nero, come in Shining.
Quando TRE ITALIANE arrivarono in FINALE nelle COPPE europee ||| 19 aprile 1989
22-03-2023
Quando TRE ITALIANE arrivarono in FINALE nelle COPPE europee ||| 19 aprile 1989
Nella storia della musica sono poche le date che hanno l'onore di essere diventate il titolo di una canzone: in Italia la più famosa è “4 marzo '43” di Lucio Dalla, oppure nel resto del mondo c'è anche “8 aprile '82” di Beck. Sono ancora meno le date che hanno addirittura dato il titolo a un intero disco: tra queste c'è l'undicesimo album di Francesco De Gregori, che s'intitola “Miramare 19 aprile 1989”, come l'inizio di una lettera, di una cartolina o un articolo di giornale. È un album pieno di inquietudine verso il presente, che usa toni aspri per parlare di cronaca, di inquinamento, di traffico di organi, di aborto. Un disco anche piuttosto amaro, volutamente poco sintonizzato sul mood ottimista, tendente all'euforia, del decennio che sta finendo in bellezza per il nostro Paese. La data prescelta da De Gregori è anche per coincidenza una data storica per il calcio italiano: 19 aprile 1989, quando per la prima volta portiamo una squadra in finale in ognuna delle tre Coppe Europee: la Coppa delle Coppe, la Coppa UEFA, la Coppa dei Campioni. A beneficio dei più giovani bisogna ricordare com'erano organizzate negli anni Ottanta le tipiche settimane di Coppa: tutte le partite al mercoledì, chi prima chi dopo, di pomeriggio, in prima serata o in differita notturna. Con mille variabili: il segnale via satellite, i diritti televisivi che non erano collettivi come oggi ma gestiti da ogni squadra di ogni Paese, eventuali scioperi dei giornalisti o degli operatori radio-televisivi. Oggi c'è l'UEFA che fa in modo di non sovrapporre due partite importanti, o perlomeno ci sono le tv che hanno pronto il canale Diretta Gol per consentirci di seguire un po' tutto. Ma negli anni Ottanta, niente di tutto questo. Eccovi il palinsesto televisivo di mercoledì 19 aprile 1989: ore 15:30, Rai2, Sampdoria-Malines, telecronaca di Ennio Vitanza ore 20:15, Rai 3, Bayern Monaco-Napoli, telecronaca di Giorgio Martino ore 20:30, Rai1, Milan-Real Madrid, telecronaca di Bruno Pizzul Poi, per i più affamati, Sredets Sofia-Barcellona, seconda semifinale di Coppa delle Coppe, alle 18:30 su Capodistria, dove alle 22:45 andrà in onda in differita anche Dinamo Dresda-Stoccarda, seconda semifinale di Coppa UEFA. E forse a questo punto avrete notato la totale assenza di squadre inglesi, e c'è un motivo: dopo il disastro dell'Heysel, 29 maggio 1985, l'UEFA le ha squalificate in blocco dalle Coppe per cinque anni. Un provvedimento severissimo per debellare la piaga degli hooligans, che il governo di Londra sta recependo con grande fatica: quattro giorni prima a Sheffield, il 15 aprile 1989, a margine della semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, sono rimasti sul prato di Hillsborough i corpi senza vita di 97 tifosi Reds. Anche se in questo caso gli hooligans c'entrano ben poco: le responsabilità sono tutte della polizia di Sheffield, oltre che di stadi antiquati, scomodi e molto pericolosi, che nel giro di dieci anni in Inghilterra verranno tutti messi in sicurezza. Il mercoledì di Coppa, con le semifinali di ritorno di tutte e tre le Coppe, arriva anche per dimenticare la tristezza di un weekend tragico che rappresenterà un punto di non ritorno nel rapporto tra il calcio e l'Inghilterra. E adesso, possiamo cominciare.
“NON vedrete più UNA COSA simile” ||| Il DRAMMATICO FINALE di Man City-QPR 3-2
03-03-2023
“NON vedrete più UNA COSA simile” ||| Il DRAMMATICO FINALE di Man City-QPR 3-2
“Dramatic”. In inglese questa parola non ha solamente il significato letterale che ha in italiano: e cioè drammatico, angosciante, straziante, strappalacrime. Può voler dire anche “spettacolare”, avvincente, sorprendente, pieno di colpi di scena. Qualcosa di “dramatic” può anche avere un lieto fine. “Dramatic” vuol dire soprattutto una storia scritta bene, con una sceneggiatura favolosa, di quelle che sorpassano a destra i migliori copioni di Hollywood. Bene, le cose che successero a Manchester il 13 maggio 2012 furono subito riconosciute da tutto il mondo come “the most dramatic end of any Premier League season”. Il finale più drammatico / Manchester City – QPR Ultima giornata di Premier League, bagarre totale sia per il primo posto che per il terzultimo. In testa alla classifica, a 86 punti, Manchester City e Manchester United. Il City ha una migliore differenza reti: gli basterà vincere per diventare campione d'Inghilterra, per la prima volta dopo 44 anni. Forse una volata così serrata non c'era mai stata, nella storia della Premier League. I Citizen sono quelli che Alex Ferguson con una certa spocchia ha chiamato nel 2009 “the noisy neighbours”, “i vicini rumorosi”. La conoscete la storia? Nell'estate 2009 Carlitos Tevez era passato dal Manchester United al Manchester City, uno dei primi grandi colpi della nuova proprietà che fa capo al principe di Abu Dhabi Mansour Bin Zayed. Manchester è un po' come Torino, dove la Juventus è certamente la squadra più blasonata, ma i tifosi granata rivendicano la superiorità in materia di tifo. E a quel punto David Pullan, il capo del marketing del City, era riuscito a convincere i nuovi dirigenti a mettere un po' di pepe nella sonnacchiosa rivalità cittadina, a senso unico da oltre trent'anni. Così, insistendo a lungo, aveva ottenuto l'autorizzazione per confezionare un poster con i colori del City, la foto di Tevez esultante e una scritta inequivocabile: “Welcome to Manchester”. E la frase stizzita di Ferguson dimostrò che Pullan aveva fatto centro. Beh, il calcio fa giri molto strani, se è vero che nel 2012 a gennaio Tevez è stato a un passo dal lasciare il City per trasferirsi al Milan: l'operazione era già conclusa, grazie al trasferimento di Pato al Paris Saint Germain che avrebbe lasciato spazio a Tevez, ma poi il brasiliano si era messo di traverso – e soprattutto la sua fidanzata Barbara Berlusconi, che aveva convinto suo padre a trattenere il Papero, per il dispiacere di Adriano Galliani che aveva visto andare in fumo la sua operazione-capolavoro. Così il 13 maggio 2012, dopo essere stato fuori rosa fino a primavera, Tevez parte titolare accanto all'altro argentino, Sergio Agüero, chiamato El Kun fin da bambino per la somiglianza con un cartone animato giapponese, “Kum Kum il cavernicolo”. È arrivato nell'estate 2011 dall'Atletico Madrid e gli inglesi ci hanno messo qualche mese per imparare la corretta pronuncia del cognome: non “a-ghe-ro” ma “a-gue-ro”, come indicano quei due puntini sulla U. Non è soltanto un segno fonetico tedesco: i puntini sulla U esistono anche in spagnolo, si chiamano “dieresis” e compaiono anche su alcuni nomi comuni, per esempio “pingüino”. “Dramatic” è anche la corsa per non retrocedere, ridotta ormai a due squadre: il Bolton e il Queen's Park Rangers.
La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
22-02-2023
La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
«Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Sono sempre stato un ragazzo tranquillo, non una testa di cazzo: chi mi conosce, lo sa» Di quanti talenti ci siamo chiesti: «Come sarebbe andata se avesse fatto una scelta invece di un’altra?». Questa è una di quelle storie. Ma è anche la storia di come un determinato modo di raccontare il calcio e i suoi protagonisti possa finire per creare una visione distorta, una narrazione facile ma lontana dalla realtà. Per troppo tempo, si è cercato di ricamare storie sul suo modo di vivere. I capelli lunghi, l’orecchino in vista, le automobili di lusso. Gianluigi Lentini voleva soltanto giocare a calcio. E lo faceva splendidamente, forte di un fisico bestiale e di una padronanza tecnica innata. Chi l’ha detestato, confondendo la sua riservatezza per spocchia, vi dirà che ha fatto troppo poco per meritare di essere ricordato. Chi lo ha amato, invece, vi spiegherà che quel poco è stato più che sufficiente per vedere all’inizio degli anni Novanta un calciatore avanti dieci anni. Gigi Lentini nasce a Carmagnola nel marzo del 1969, ma soltanto perché lì c’è l’ospedale. Cresce infatti a Villastellone, un quarto d’ora più a nord, purissima campagna torinese: il sole che d’estate cuoce i tetti delle case e che d’inverno, invece, si vede meno. Il pallone diventa subito un passatempo che domina le sue giornate e a dieci anni è già nel vivaio del Torino, che in quegli anni non è solo un serbatoio per la prima squadra, ma per tutto il calcio italiano. Sergio Vatta, allenatore della Primavera e maestro di calcio giovanile, era entrato in società in pianta stabile due anni prima: merito anche di un’imbeccata che non era stata assecondata da Gigi Radice. Nel 1975, quando allenava l’Ivrea e per un giorno a settimana faceva l’osservatore per i granata, era stato portato a Lione da Giacinto Ellena, responsabile del vivaio del Toro, per andare a vedere il ventenne Michel Platini, all’epoca stellina del Nancy. Erano anni in cui il mercato estero, per i club italiani, era inaccessibile per regolamento: le frontiere erano ancora chiuse dopo il fallimento mondiale del 1966. Vatta rimase stregato da Platini, facendo presente al club che si poteva opzionare con cento milioni, ma alla fine non se ne fece nulla. Ma torniamo a Lentini, alla sua crescita nel settore giovanile. Vatta lo vede per la prima volta durante una partita degli allievi, a Mathi Canavese. È un colpo di fulmine. Osserva questo corpo che sembra uscito dalle mani di Canova fare su e gi ù sulla fascia, apparentemente senza fatica. C’è da lavorare, ovviamente, perché Lentini si piace un po’ troppo e il luogo comune del dribblomane fumoso è dietro l’angolo. Ma Vatta ha già capito che quella materia prima è fin troppo semplice da plasmare e da rendere un giocatore di altissimo livello. «In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili. La maglia numero 7 finiva sempre stracciata. Una volta fece quattro gol alla Samp, nell’ultimo scartò mezza squadra, si fermò sulla linea di porta, aspettò il portiere e segnò. Eravamo al Fila, il portiere era Pagliuca che lo inseguì per tutto il campo». (Sergio Vatta) Si guadagna in fretta la chiamata delle nazionali giovanili, gli esperti di cose granata lo devono tenere d’occhio già nella stagione 1986-87, quando inizia a trovare un po’ di spazio in prima squadra agli ordini di Radice e vince il Viareggio in Primavera, insieme all’amico Diego Fuser. Giocare con il numero 7 nel Torino non è come farlo in altre squadre. La mistica che si porta dietro una maglia che fu di Gigi Meroni e di Claudio Sala non sembra però turbarlo più di tanto. Il calcio di Lentini è istintivo, spensierato. Per certi versi, anche un po’ arrogante. In due stagioni mette insieme poche presenze da titolare e tanti spezzoni. L’obiettivo della società è verificarne la tenuta su una stagione intera e così, nell’estate del 1988, viene mandato ad Ancona, in Serie B.
La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou
15-02-2023
La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou
Tutti quelli che passavano da Barcellona almeno per un weekend tra il 2009 e il 2012 difficilmente riuscivano a resistere alla tentazione di dare quantomeno un'occhiata al più grande spettacolo del mondo. Un calcio ipnotico e visionario, la miglior orchestra mai assembleata dai tempi del Milan di Sacchi al servizio di un direttore di furibonda genialità, ma anche uno spettacolo costoso, esclusivo, globale nel senso più puro del termine, con migliaia di spettatori americani, indiani, giapponesi che si mischiavano ai tifosi locali, disposti a spendere qualunque cifra per 90 minuti di Messi e compagni. Nelle notti più torride era tutto esaurito anche il quarto anello del Camp Nou, da cui – notoriamente – non si vede niente, il calcio sembra virtuale e i giocatori sembrano dei pixel indefinibili come in un vecchio videogame. Quest'ingranaggio apparentemente perfetto, che coniugava risultati e stile – il Barça con le magliette sponsorizzate Unicef, su cui Mourinho avrebbe ironizzato un anno dopo – questa macchina infernale che macinava titoli spagnoli e internazionali, che aveva vinto una Champions League nel 2009 e un'altra ne avrebbe vinta nel 2011, fu sabotato il 28 aprile 2010. In dieci, nel Duemila-Dieci, a difesa di un risultato che, privato del trattino, diventa anch'esso un Dieci. 10 cartoline da Barcellona, la più bella sconfitta della storia dell'Inter.Era considerato dormiente dal 1821, ma intorno alla mezzanotte del 20 marzo 2010 il vulcano islandese Eyjafjöll, punta di diamante del ghiacciaio Eyjafjallajökull (eiafiatlaiòcutl ), ha la bella idea di risvegliarsi ed eruttare. È l'ultimo sabato sera invernale: l'Inter ha rallentato a Palermo, 1-1, gol di Milito e pareggio di Cavani, ed è andata a dormire con un filo di preoccupazione perché il Milan di Leonardo, il giorno dopo, battendo il Napoli in casa potrebbe operare il sorpasso in vetta alla classifica – ma non ci riuscirà. Per un mese il vulcano islandese rimane un accidente trascurabile e non trova spazio sui giornali fino a metà aprile, quando un'altra grossa eruzione crea un'enorme nube di ceneri vulcaniche che appesta i cieli di tutto il continente e causa disagi, ritardi e cancellazioni in tutti gli aeroporti d'Europa. Così il Barcellona arriva a Milano dopo 15 ore di viaggio in pullman stile gita scolastica, con unica tappa a Cannes: un pullman extra lusso, naturalmente – qui vedete Puyol che prova a rassicurare i tifosi postando su Twitter le foto degli interni.Ma la sfacchinata lascia alcune scorie nelle gambe dell'ultrastressato Barça, che dopo il gol di Pedro cade con tutte le scarpe nella strategia approntata da Mourinho: difendere bassissimi e ripartire, fino a pungere tre volte con Sneijder, Maicon e Milito. Anche su Inter-Barcellona 3-1 si potrebbe parlare per giorni interi e solo lo show finale di Balotelli meriterebbe una parentesi di mezz'ora. Ad ogni modo, nonostante i due gol di scarto, il Barça è ancora sinceramente convinto che si sia trattato di un episodio isolato e irripetibile, anche se Iniesta è infortunato e salterà anche il ritorno, anche se i cinque cartellini gialli – tra cui quello di Puyol, diffidato e squalificato – dovrebbero allarmare un po' Guardiola sulla delicatezza anche psicologica del doppio confronto. Del resto, il punteggio che serve l'hanno già ottenuto a novembre, nel girone, un Barcellona-Inter in cui il 2-0 finale stava fin troppo stretto al Barça, perdipiù senza Leo Messi. Niente, la parola è solo una, recitata come un mantra, agitata come un grido di battaglia: “remuntada”. “Io ho raccomandato ai miei giocatori di inseguire un sogno, mentre invece per il Barcellona è un'ossessione. Il sogno è più puro dell'ossessione. Per il Barcellona raggiungere la finale di Parigi nel 2006 e Roma nel 2009 è stato un sogno, ma arrivare alla sfida decisiva al Santiago Bernabeu, nella tana del Real Madrid, è un'ossessione. Li capisco: lo sarebbe anche per noi se andassimo a giocarci la Champions a Torino". (José Mourinho, c
La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO
25-12-2022
La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO
Nella cultura occidentale il portiere è sempre stato un uomo solo. A volte maledetto – pensate a Moacir Barbosa, passato alla storia come l'unico responsabile del Maracanazo – a volte pittoresco, estroso, fuori dagli schemi. “Per fare il portiere bisogna essere un po' matti”, si dice, o quantomeno non soffrire troppo il peso della solitudine. C'è anche una poesia di Umberto Saba, si intitola “Goal”, la descrizione di un gol dal punto di vista dei due portieri: quello che l'ha subito è disperato, distrutto, “contro terra cela la faccia a non vedere l'amara luce”. L'altro esulta sì, ma da lontano, cerca invano di imbucarsi alla festa degli altri: “La sua gioia si fa una capriola/si fa baci che manda di lontano/della festa – egli dice – anch'io son parte”. In Russia, invece, è tutto diverso: in Russia il portiere è un eroe nazionale, letteralmente “l'estremo difensore”, il capitano morale, l'esempio da portare ai bambini. Ladifesa della porta si sovrappone alla difesa della Patria: sarà retorico?, sì, lo è, ma ovunque il calcio è retorica, spirito di squadra, senso di appartenenza. Se da noi il portiere è un escluso, in Russia il portiere include tutti gli altri, tutto il popolo. C'è un articolo del 2006 del Guardian, scritto dal grande Jonathan Wilson, che s'intitola: “Perché tutti i russi vogliono essere portieri?”. La risposta sta in un nome, poi in un secondo nome patronimico, infine in un cognome: Lev Ivanovic Jascin. Il giovane Lev Jascin abbraccia davvero la vocazione del portiere ben oltre i vent'anni. Fino al 1949 non va oltre la squadra B della Dinamo Mosca. È stato notato da Arkady Chernyshov, allenatore delle giovanili della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, dove però tra i pali vige la logica del posto fisso: una delle poche tracce di proprietà privata nell'Unione Sovietica, proprietà di Aleksei Khomich, “la Tigre”. Khomich era il biglietto da visita della prima squadra di calcio sovietica che abbia messo il naso oltre-cortina dopo la guerra: nel novembre del 1945 la Dinamo si è esibita in alcune amichevoli a scopo puramente promozionale in Inghilterra, contro il Chelsea e il Tottenham, e lui ha rubato la scena. Una leggenda vivente. Ti puoi affacciare in campo solo nelle rare volte in cui Khomich è infortunato, o casomai per un'amichevole: come quella contro il Traktor Stalingrado, primavera del 1949, il debutto di Lev Jascin in prima squadra. Un debutto da sogno, un debutto da incubo: a un certo punto, sul rinvio del portiere avversario, prolungato dal vento, fa per andare in presa alta ma si scontra con un difensore e la palla finisce in rete, tra le risate generali. Seconda chance: 2 luglio 1950, derby sentitissimo tra Dinamo e Spartak, Khomich si fa male e dalla panchina l'allenatore Dubinin ordina a Jascin di entrare in campo. I suoi sono avanti 1-0, mancano pochi minuti alla fine, ma arriva un'altra uscita a vuoto. Leggenda vuole che dopo la partita un dirigente della Dinamo faccia irruzione in spogliatoio con parole piuttosto nette: “Sbattete questo cretino fuori dalla squadra”. Terza chance, quattro giorni dopo, 6 luglio 1950: e questa finalmente la vince, sì, ma la vince 5-4, perché il giovane Jascin ha preso 4 gol dalla Dinamo Tbilisi. Ok ragazzo, gli dice l'allenatore, sarà per un'altra volta. Come da manuale del giovane calciatore anni Quaranta e Cinquanta, Lev Jascin ha avuto un'infanzia difficile. Sua madre è morta di tubercolosi quando lui aveva sei anni. Poi, a undici anni, è arrivata la guerra: insieme a suo padre Ivan è stato evacuato da Mosca nell'ottobre 1941, trovando riparo a Ulyanovsk, 900 chilometri più a Est.
La più GRANDE PARATA della STORIA ||| "La parata del SECOLO" su Pelé
22-12-2022
La più GRANDE PARATA della STORIA ||| "La parata del SECOLO" su Pelé
Guadalajara, Messico, 7 giugno 1970. Il responso del termometro, per i giocatori che stanno per scendere in campo, è devastante. Fanno 38 gradi, non si respira. La partita è stata fissata a mezzogiorno per questioni di diritti televisivi: anche più di cinquanta anni fa, erano le tv a dettare i tempi, per consentire di trasmettere il match a un orario interessante per le emittenti europee. Ok, è soltanto una partita di girone del Mondiale. Ma è quella più attesa. Negli spogliatoi si sente quel rumore ipnotico dei tacchetti che sbattono a terra. È la favola del calcio che prende vita. Nella pancia dello stadio si muovono i protagonisti. Pelé, Jairzinho, Carlos Alberto. E poi Bobby Moore, Hurst, Bobby Charlton. C’è anche il miglior portiere del Mondiale precedente, quello del 1966. Si chiama Gordon Banks e non vede l’ora di poter affrontare Pelé. Non lo sa ancora, ma sta per consegnare ai posteri quella che è stata definita, con discreta ragione, la parata del secolo. THE “BOGOTÀ BRACELET” L’Inghilterra arriva ai Mondiali del 1970 per difendere il titolo vinto quattro anni prima. L’entusiasmo della vigilia si spegne di colpo in Colombia, scelta dalla federazione inglese per preparare fisicamente i giocatori alle sfide imposte dall’altitudine che troveranno in Messico. In un momento di relax, Bobby Moore e Bobby Charlton entrano nella gioielleria Fuego Verde: devono comprare un regalo alla moglie di Charlton, ma nulla di quello che gli viene mostrato li convince. I due, scoraggiati, si accingono a lasciare il negozio. Ed è qui che succede qualcosa di impensabile. La manager del negozio, tale Clara Padilla, li raggiunge di corsa e li accusa di avere fatto sparire un braccialetto. C’è molta confusione, i due negano tutto, gli schiamazzi arrivano alle orecchie del commissario tecnico inglese Ramsey e alla fine Moore e Charlton possono andarsene. Sembra un fatto di poco conto: la preparazione della squadra prosegue, l’Inghilterra batte la Colombia in amichevole, poi anche l’Ecuador a Quito, quindi torna a Bogotà per un lungo scalo aereo in attesa del volo per Città del Messico. Neil Philips, il medico della squadra, peraltro presente all’interno della gioielleria al momento dei fatti, consiglia inutilmente alla federazione di prenotare un volo con uno scalo alternativo a Panama: idea bocciata sul nascere. Tutti a Bogotà, dunque. Staff e calciatori stanno guardando un film quando due agenti colombiani in borghese irrompono e portano via Bobby Moore, il capitano che nel 1966 aveva ricevuto dalle mani della regina Elisabetta la Coppa Rimet, arrestandolo per furto. L’arresto in modalità riservata è una gentile concessione della polizia colombiana dopo un lungo lavoro diplomatico dell’ambasciatore inglese: gli agenti, inizialmente, avevano pensato di intervenire direttamente davanti ai giornalisti. È emerso un nuovo testimone, Alvaro Suarez, che giura di avere visto Moore uscire dalla gioielleria con il braccialetto scomparso. Ramsey, spiazzato dalla situazione, decide di far comunque salire i giocatori sull’aereo per Città del Messico, comunicando alla squadra dell’arresto una volta in volo. « Bobby Moore un ladro e Bobby Charlton suo complice? Era come se ci avessero detto dell’arresto di Madre Teresa per crudeltà su dei bambini». (Gordon Banks) Moore non viene portato in carcere ma a casa di Alfonso Senior, il presidente della Federcalcio colombiana. Arresti domiciliari decisamente particolari, per consentire a Moore di allenarsi in attesa della ratifica delle accuse. Il giudice Justice (ebbene sì) Peter Dorado chiede a Padilla di ricostruire la vicenda ma la sua versione non collima più con quella raccolta subito dopo i fatti: dice di aver visto Moore mettere il braccialetto nella tasca sinistra del suo blazer, ma il blazer di Moore non ha tasche. Anche il valore del braccialetto si impenna improvvisamente: passa da 500 a 5.000 sterline. Qualcosa non quadra. Il 28 maggio, Moore viene rilasciato per insufficienza di prove, pur dovendo
La FAVOLA del CAMERUN ||| Italia ‘90
20-12-2022
La FAVOLA del CAMERUN ||| Italia ‘90
Questa storia inizia dall'Isola della Réunion, in pieno Oceano Indiano: quel che tecnicamente i francesi chiamano DOM (départment d'outre-mer), dipartimento d'oltremare, perché pur trovandosi a 420 chilometri a Est del Madagascar è territorio francese e risponde alle leggi e agli statuti della Repubblica Francese. Qui è ambientato uno dei film meno riusciti di François Truffaut, “La mia droga si chiama Julie”, con Jean-Paul Belmondo e Catherine Deneuve. Qui sta letteralmente svernando quello che è probabilmente il più grande calciatore africano degli anni 80: Roger Milla, 38 anni, l'unico giocatore della Jeunesse Sportive Saint-Pierroise, squadra di terza categoria francese, a percepire un regolare stipendio. Ha un grande avvenire dietro le spalle che risale per esempio al 1981, quando aveva vinto la Coppa di Francia con il Bastia, segnando un gol in finale contro il Saint Etienne di Platini. Nel 1989 Milla ha preso un solo voto al Pallone d'Oro. Sì, ma il Pallone d'Oro africano! Per la cronaca, ha vinto un giovane attaccante liberiano del Monaco, un certo George Weah. E Milla è arrivato cinquantesimo, a pari merito con tutta una serie di sconosciuti di cui oggi non si trova traccia nemmeno su Wikipedia: Amegassé, Makinka, Mutumbile, Rasoanaivo, Wachironga... Quest'anno ha preso un voto: l'unico a votarlo è stato il corrispondente dell'Herald di Harare, principale quotidiano dello Zimbabwe, ma si è trattato più che altro di un atto di fede. Il Pallone d'Oro Africano lui l'aveva già vinto, sì, ma nel 1976, tredici anni prima, quando giocava con il Tonnerré Yaoundé. Ha pure chiuso con la Nazionale, per una questione personale: mentre stava giocando un'amichevole contro l'Arabia Saudita, sua madre è morta. Il Ministro dello Sport gli aveva promesso che l'avrebbero ricoverata, ma non l'aveva fatto. E allora, per onorare la sua memoria, è diventato la versione black di Achille nel primo libro dell'Iliade: si è ritirato sdegnato nel suo accampamento, alla Réunion, e ai Mondiali andateci voi. Senza di lui, il Camerun ha fatto una figura magrissima alla Coppa d'Africa 1990: eliminata ai gironi da campione uscente da Zambia e Senegal, un disastro. A Italia 90 il Camerun è finito in un girone durissimo: i campioni del mondo dell'Argentina, i vice-campioni d'Europa dell'Unione Sovietica, e la Romania che è imperniata sul blocco della Steaua Bucarest finalista di Coppa Campioni nell'89. Così, a due mesi dalla partenza per l'Italia, tocca intervenire al presidente della Repubblica in persona: Paul Biya. In realtà la gran parte dell'opinione pubblica e della stampa sportiva non sono entusiasti dell'idea di supplicare in ginocchio Milla, però Biya è uno che sa fiutare l'aria: gode di un certo seguito nel Paese, tanto che alle elezioni del 1988 è stato rieletto con il 98,75% dei voti – anche se, secondo qualche maligno, ha pesato il fatto che fosse l'unico candidato. Flashforward: a febbraio Paul Biya compirà 90 anni ed è TUTTORA il presidente della Repubblica. Così scavalca l'opinione del ct, che farebbe a meno pure lui di richiamare Milla, e sguinzaglia il suo ministro dello Sport, Joseph Fofé – quello che due anni prima non aveva mantenuto la promessa – e lo costringe a umiliarsi al cospetto di Milla. E lui, come Cincinnato, accetta di riprendere le armi e ballare la sua Last Dance con tutti gli altri Lions Indomptables, i Leoni Indomabili. In quel momento il Camerun detiene un curioso record di cui va molto fiero: è l'unica Nazionale della Terra a non aver mai perso nemmeno una partita ai Mondiali. C'è stato solo una volta, nell'82, ed è tornato a casa dopo tre pareggi contro Perù, Polonia e Italia, con qualche sospetto di combine che è stato sempre sdegnosamente negato sia da noi che da loro.
Alan SHEARER al GENOA ||| Lo SCHERZO più crudele di sempre
14-12-2022
Alan SHEARER al GENOA ||| Lo SCHERZO più crudele di sempre
Da una parte una tifoseria in subbuglio, dall’altra una pioggia di smentite. In un giorno di giugno del 2004, con il mercato teoricamente ancora sonnecchiante, a svegliare tutti dal torpore ci pensa Il Secolo XIX, lo storico quotidiano di Genova. La notizia è di quelle in grado di scuotere il calciomercato nazionale anche se riguarda una squadra che in quel momento milita in Serie B: il Genoa, che nella stagione precedente ha chiuso al quindicesimo posto nel campionato cadetto in quello che era stato il primo anno di presidenza di Enrico Preziosi, è pronto ad annunciare l’arrivo di Alan Shearer, prossimo ai 34 anni, ma pur sempre reduce da una stagione da 22 gol in Premier League, secondo nella classifica dei marcatori del campionato inglese soltanto a una stella internazionale come Thierry Henry. Ma com’è possibile? Enrico Preziosi è un personaggio picaresco, un uomo che a 30 anni aveva fondato, nel garage di casa, la Giochi Preziosi, ottenendo un successo smisurato fino a mettersi in società con Silvio Berlusconi.  Quella nel Genoa è la sua terza avventura nel mondo del calcio: anzi, la quarta, se si considera il ruolo di azionista di minoranza nella Carrarese. Arriva soprattutto dalle due esperienze al Saronno e al Como, lasciato con un addio a dir poco tumultuoso dopo averlo riportato in Serie A per mettere le mani sul Grifone appena retrocesso in Serie C1 e, nel giro di qualche mese, tornato in B grazie allo scossone provocato dal caso Catania. Ora immaginatevelo stanco, dopo una giornata di lavoro e di telefonate relative al mercato del Genoa: è a casa, l’unica cosa di cui sente la necessità è un po’ di relax. Ma intorno alle dieci di sera riceve una chiamata dalla sua addetta stampa. “Mi disse che il Secolo XIX stava chiedendo conferma di un presunto accordo che avevamo trovato con Alan Shearer. Le dissi di riferire al giornale che era tutto vero: contratto triennale, avrebbe giocato con il Genoa. Mi era sembrato uno scherzo divertente: mai avrei pensato che lo mettessero in prima pagina”  Nasce così, un po’ per noia, un po’ per divertimento, una delle storie di mercato più assurde che il calcio italiano abbia mai dovuto maneggiare. I giornalisti del Secolo XIX, forti di una conferma che più diretta non si può, lasciano che la storia faccia il suo corso. Per dirla con le parole di Fabrizio De André, una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale. E così, con il passare delle ore, vola veloce di bocca in bocca, fino ad arrivare in Inghilterra. Alan Shearer, in quegli anni, è un monumento del Newcastle e un totem della Premier League: a fine carriera i gol segnati dal 1992, anno del passaggio dalla First Division al nuovo torneo, saranno 260. In quel momento sono solamente, si fa per dire, 243. Il Newcastle ha appena chiuso la stagione al quinto posto e ha raggiunto la semifinale di Coppa Uefa. E tutti i media inglesi si chiedono come sia possibile un affare del genere. Su quali basi, per il club e per un giocatore di questo calibro? Il club smentisce, l’ex capitano dell’Inghilterra cade dalle nuvole. “Ho letto di questa notizia, ma è totalmente falsa. Mi rimane un solo anno da calciatore, il mio unico obiettivo è riuscire finalmente a vincere qualcosa con il Newcastle, che ha i migliori tifosi del mondo. Considererei di lasciare solamente se Bobby Robson mi dicesse che non sarò un titolare nella prossima stagione”
L’ULTIMO gol di LE TISSIER ||| Quando LE GOD fece esplodere SOUTHAMPTON
11-11-2022
L’ULTIMO gol di LE TISSIER ||| Quando LE GOD fece esplodere SOUTHAMPTON
Se mai dovesse capitarvi di passeggiare per le strade di Southampton alla ricerca di quello che fu il vecchio stadio dei Saints, non trovereste altro che un centro residenziale. È il prezzo da pagare per la modernità: il St Mary’s sorge a pochi metri dalle rive del fiume Itchen mentre il The Dell era uno di quegli impianti squisitamente britannici, con gli spalti che trovavano spazio in mezzo alle case, spuntando all’improvviso tra i vicoli. Lì dove una volta c’era il prato, oggi c’è il parcheggio interno del condominio. E tra i vari appartamenti ce ne è uno riadattato a casa vacanze, prenotabile online, senza fatica. I gestori, con una mossa illuminata, gli hanno dato il nome dell’uomo che su quel prato aveva guadagnato i gradi di divinità. E che, in quanto tale, aveva realizzato l’ultimo gol segnato in gare ufficiali all’interno di quello stadio. 19 MAGGIO 2001 – ULTIMA PARTITA UFFICIALE AL THE DELL L’incredibile carriera di Matthew Le Tissier sta giungendo al termine. Non aveva mai avuto i crismi dell’atleta modello, ma da un paio d’anni il suo declino pare evidente. È costantemente sovrappeso, non riesce a reggere i ritmi di una Premier League che è cambiata sotto i suoi occhi, diventando un campionato sempre più competitivo, in grado di attirare campioni che per anni avevano snobbato l’Inghilterra. Per amore del Southampton, o anche solo per la volontà di non uscire dalla comfort zone che si era creato, nel corso degli anni aveva rifiutato offerte di ogni tipo. Nel 1990 aveva detto no al Tottenham, la squadra per cui faceva il tifo da bambino. Seguiva le partite degli Spurs da lontano, da Saint Peter Port, la capitale di Guernsey, un pezzo di terra che sorge tra la Francia e l’Inghilterra: Channel Islands, le chiamano da quelle parti. Una zona particolare, che ricade sotto le dipendenze della Corona non per la sovranità del Regno Unito, ma per quella dell’antico Ducato di Normandia. Era arrivato giovanissimo al Southampton e non se ne era più andato, segnando gol incredibili, perché il modo di calciare di Le Tissier non aveva rivali. Era in grado di trovare la porta da distanze siderali, con angoli impossibili. Vederlo ciondolare in mezzo al campo palla al piede, abbozzando dribbling che riuscivano soltanto grazie al suo straordinario talento tecnico, non potendo contare sulla rapidità, era un’esperienza per certi versi addirittura surreale. Esiste una generazione cresciuta vedendo i gol di Le Tissier in maniera fugace, in quelle sintesi iper rapide che passavano sui canali secondari o satellitari, un rifugio per gli esteti. Italiani, tedeschi, spagnoli, rapiti a guardare delle magie che passavano in tv di sfuggita, con sorpresa e ammirazione. «In una tv catalana c’era un programma di mezz’ora ogni lunedì in cui facevano vedere i migliori gol della Premier League. Le Tissier c’era sempre, ogni settimana. Faceva dei gol assurdi. Pum! Pallone sotto l’incrocio. Pam! Finta e pallone sopra la testa di un difensore per poi fare gol. Pum! Una punizione incredibile. Mi chiedevo: “Ma perché rimane al Southampton? Potrebbe giocare con chiunque!”. In casa eravamo tutti fissati per lui» (Xavi) Aveva avuto un rapporto a dir poco controverso con la Nazionale inglese. Nonostante le prodezze, non era entrato per davvero nel giro fino all’arrivo in panchina di Glenn Hoddle, il suo idolo da bambino: era il 1996, con i sogni del primissimo «Football’s coming home» mandati in fumo dal rigore di Gareth Southgate contro la Germania. Si era ritrovato in campo in una partita dal peso specifico enorme, quella di Wembley contro l’Italia. Una gara che l’Italia di Cesare Maldini aveva vinto grazie a una saetta di Gianfranco Zola, lasciando a bocca aperta gli inglesi, che pure erano già abituati da qualche mese a vedere da vicino le giocate di quello che avevano ribattezzato, con un tocco di genialità, “Magic Box”.
L'attore di DEADPOOL ha comprato la 3ª squadra PIÙ ANTICA del mondo per portarla in Premier League
04-11-2022
L'attore di DEADPOOL ha comprato la 3ª squadra PIÙ ANTICA del mondo per portarla in Premier League
“Odio dirlo, ma ora sono così ossessionato dal calcio che sto iniziando a odiarlo” (Ryan Reynolds)  Se siete appassionati di cinema, il nome di Ryan Reynolds sicuramente vi suona familiare. Potrebbe risultarvi un po’ più oscuro(.) quello di Rob McElhenney, ma se nel corso degli anni avete amato la serie It’s Always Sunny in Philadelphia, allora non avrete dubbi neanche su di lui. Ok, ma cosa c’entrano due attori, produttori e sceneggiatori con una delle storie di Cronache? Questo insospettabile duo ha deciso di investire 2 milioni e mezzo di dollari nel Wrexham, club gallese che milita nella National League, il quinto livello del calcio inglese. Una mossa apparentemente senza senso, vista la distanza dalla Premier League, ma che in poco più di un anno e mezzo ha già portato frutti notevoli.   Il Wrexham, per la coppia di attori, rappresentava una base intrigante da cui partire: buonissime strutture per la categoria e una storia interessante. Se è ancora più o meno dibattuto il fatto che rappresenti la terza squadra professionistica più antica della storia, non sembrano esserci dubbi sul fatto che sia il club più antico del Galles. Lo stadio è sempre lo stesso dall’anno della fondazione, il 1864: si gioca al Racecourse Ground, un impianto costruito addirittura nel 1807. Il suo primo utilizzo, come è facile intuire dal nome, fu quello di ippodromo. La prima partita di calcio giocata al Racecourse Ground fu quella tra il Wrexham e una selezione cittadina di vigili del fuoco: era il 22 ottobre del 1864. Nel corso della sua lunghissima storia, non è mai andato al di sopra della Seconda Divisione inglese, apice raggiunto nella stagione 1978-79, stesso anno in cui costrinsero al replay il Tottenham nel quarto turno di FA Cup. Parallelamente, il Wrexham disputava anche la Coppa del Galles, vinta ben 23 volte: questo gli ha permesso, nel corso degli anni, di partecipare spesso alla Coppa delle Coppe. Il miglior risultato europeo della storia del club è il quarto di finale raggiunto nel 1976, perso di misura contro l’Anderlecht.
L'ULTIMA CHAMPIONS della Juventus ||| Ajax - Juventus 1996
25-10-2022
L'ULTIMA CHAMPIONS della Juventus ||| Ajax - Juventus 1996
Il primo indizio su chi vincerà la finale di Champions League 1996 Juventus-Ajax compare sullo schermo quando l'arbitro Diaz Vega ha fischiato l'inizio da meno di dieci secondi. Davids appoggia a Frank De Boer che allarga a sinistra per Winston Bogarde, un metro e 95, il più alto dei colossi olandesi. A naso, un frontale con Bogarde non sembra il modo migliore per iniziare una finale di Champions: ma non è questa l'idea di Moreno Torricelli, che debutta nella partita falciandolo di netto nella sorpresa dello stesso Bogarde, che non si aspettava di essere livellato al suolo dopo dieci secondi. L'Ajax campione in carica, presuntuoso e ottimista come da tradizione olandese, non se l'aspettava una Juventus così.Nella primavera 1994 la Juventus ha sterzato di 180 gradi, passando da Boniperti e Trapattoni alla cosiddetta Triade – in ordine alfabetico Roberto Bettega, Antonio Giraudo e Luciano Moggi – che come primo atto fondante della rivoluzione ha messo in panchina Marcello Lippi, tecnico senza pedigree che non è ancora andato oltre un piazzamento UEFA con il Napoli. Scelta felicissima. La squadra da battaglia che il 22 maggio 1996 aggredisce e soffoca l'Ajax in un pressing senza quartiere è la fusione di tre anime distinte e complementari, la modernità e la tradizione. La prima anima è quella tecnica, nata dopo una pesante sconfitta a Foggia nell'ottobre 1994: da quel giorno Lippi ha ordinato ai suoi uomini di rischiare, alzare il baricentro, sottoporre ogni avversario a un pressing feroce. La squadra l'ha seguito compatta come un blocco di granito già dalle partite successive: due settimane dopo, l'1-0 con il Milan campione d'Italia e d'Europa finito 11 volte in fuorigioco ha fatto capire a Lippi che la strada è quella giusta. C'è un grande leader motivazionale a dare l'esempio e tirare la carretta, Gianluca Vialli. A seguirlo un gruppo di buoni giocatori, nessun campione, accomunati dalla fame di chi ha mangiato il pane duro della bassa serie A o addirittura della serie B: Angelo Di Livio, Antonio Conte, Sergio Porrini, Fabrizio Ravanelli. Il caso più eclatante è quello di Moreno Torricelli, pescato nel 1992 dalla Juventus nel reparto Imballaggi & Spedizioni di un mobilificio di Giussano, dove pare che sia esposta una targa in omaggio al loro dipendente più famoso. Giocava in serie D, nella Caratese, e ha folgorato Trapattoni in un'amichevole estiva tanto che il Trap ha insistito con la società per regalargli un mese di prova. Non se n'è più andato. Roberto Baggio lo ha soprannominato “Geppetto” e ogni tanto, scherzando, gli chiede se può sistemare i tavolini che ballano in spogliatoio; ascolta musica heavy metal, in campo gioca con una foga agonistica ineguagliabile e uno sguardo spiritato che all'Avvocato ricorda gli occhi di Totò Schillaci nelle Notti Magiche di Italia 90.Tutti i giorni, fin dal ritiro di Chatillon, li torchia in allenamento “il marine”: Giampiero Ventrone. Ventrone fa segnare un passaggio brutale dalle preparazioni soft di Trapattoni a quattro-cinque ore di palestra di seguito, con punte di sadismo inedite per il calcio degli anni Novanta. Il principale strumento di tortura si chiama “la campana della vergogna”, un esercizio che stimola non solo i muscoli ma anche l'orgoglio: enorme, tutta dorata, la campana sta in un angolo del campo, onnipresente in ognuno dei massacranti esercizi fisici ideati da Ventrone. Il primo giocatore a mollare è obbligato ad andarla a suonare, in segno di resa: un momento che li umilia anche psicologicamente davanti ai compagni. E ora guardatele quelle facce nel momento più importante della loro carriera, mentre Andrea Bocelli sta cantando l'inno della Champions. Sono impressionanti: non ce n'è uno che stia fermo, tutti scalpitano, sciolgono i muscoli, sbuffano, impazienti di scaricare la tensione di queste settimane.
RONALDO ‘98 ||| Quando il FENOMENO diventò LEGGENDA
18-10-2022
RONALDO ‘98 ||| Quando il FENOMENO diventò LEGGENDA
Proviamo a fare un piccolo esperimento. Chiudete gli occhi. Se vi dico: «Pensate alla prima immagine di Ronaldo con la maglia dell’Inter nella sua prima stagione», cosa vi viene in mente? Il gol a Parigi contro la Lazio, quella danza che stende Marchegiani e consegna definitivamente la Coppa Uefa all’Inter dopo le firme di Zamorano e Zanetti? Oppure quella sfida aperta all’impenetrabilità dei corpi a Mosca, il controllo orientato in mezzo a due centrali dello Spartak ridotti a sagome, la capacità di pattinare sul fango tra un difensore e l’altro come se fosse totalmente incorporeo? La sterzata a Bologna nel giorno del suo primo gol in Serie A, la finta di calciare con il destro per poi ritrovarsi il pallone di colpo sul sinistro, con Paganin incapace di elaborare in pochi secondi quanto stava accadendo? O forse la punizione a giro contro il Parma, un bacio alla traversa e Buffon impietrito, impossibilitato ad abbozzare una qualsiasi reazione? E se invece fosse quella fuga alle spalle dei centrali milanisti nel giorno del derby di ritorno? Moriero che mette in mezzo un pallone telecomandato dalla trequarti e il corpo di Ronaldo che si modella in volo per trovare il modo migliore per andare all’impatto, l’emblema plastico del concetto che si portava dietro in una celebre campagna pubblicitaria: la potenza è nulla senza controllo. Sono tutte scelte legittime, perché pescare dall’album dei ricordi di quella prima stagione interista di Ronaldo è praticamente impossibile. Non c’era nulla che non potesse fare, nulla che non gli riuscisse. Faceva sembrare tutto facile anche quando era tremendamente difficile. Eppure, se qualcuno mi costringesse, pistola alla tempia, a prendere una sola azione, un solo frammento di quel Ronaldo imprendibile, di quel Ronaldo che purtroppo non avremmo più visto da lì a poco, non avrei dubbi.
La STORIA di Pierluigi COLLINA ||| Il miglior ARBITRO di SEMPRE
14-10-2022
La STORIA di Pierluigi COLLINA ||| Il miglior ARBITRO di SEMPRE
Chi è stato in campo in una finale Mondiale,  finale di Champions, finale olimpica, in Real Madrid-Barcellona, Argentina-Inghilterra, Germania-Inghilterra, Inter-Juve, Milan-Juve, derby di Milano, derby di Roma, Torino, Genova? Nessuno. Anzi, uno sì. Il più bravo di tutti: Pierluigi Collina.  C'era lui quando Ronaldo il Fenomeno segnò tre gol a Old Trafford, o quando Ronaldinho incantò con un balletto la difesa del Chelsea, o quando l'Inghilterra segnò cinque gol in casa della Germania. È uno dei pochi ad aver fischiato un fallo da rigore commesso da Cristiano Ronaldo nel match inaugurale degli Europei 2004, Portogallo-Grecia. Collina è un personaggio a metà tra un film di Clint Eastwood e uno di Quentin Tarantino, un eroe solitario – perché l'arbitro è per forza un uomo solo - con una personalità debordante, sguardo magnetico, fisionomia da Avenger e in particolare un dettaglio inconfondibile – la calvizie – che negli anni è diventata un punto di forza e l'ha reso una celebrità di fama mondiale. Prima di imporre in tutto il mondo la sua proverbiale pelata che l'ha fatto finire sulla homepage del celebre sito pirata RojaDirecta e sulla copertina di Pro Evolution Soccer – primo e unico arbitro a riuscirci – Collina è un uomo che ha sofferto, è sceso a patti con la sua malattia e si è disegnato una traiettoria spaziale attraverso due stelle polari: lo sport e le regole. Un esempio di vita, un uomo che, come i più grandi calciatori e allenatori, ha aiutato il suo sport a migliorare.
Michel PLATINI alla Juventus || Il TRASFERIMENTO del RE a Torino
06-09-2022
Michel PLATINI alla Juventus || Il TRASFERIMENTO del RE a Torino
L'Avvocato Gianni Agnelli e la Francia hanno sempre avuto un rapporto privilegiato. Dalle parti di Casa Agnelli affiora ogni tanto una battuta che, come tutte le battute, possiede sempre un fondo di convinzione in chi la pronuncia: “Il Piemonte non è una regione della Francia, è la Francia che è una regione del Piemonte”. Tanto addirittura da sposarsi, in Francia, con Marella Caracciolo, precisamente nel castello di Osthoffen, vicino Strasburgo, il 19 novembre 1953. Ma un anno prima, sempre in Francia, ha avuto l'incidente che gli ha cambiato la vita. Pochi giorni dopo Ferragosto, al culmine di un'estate leggendaria in Costa Azzurra, dedicandosi a una delle sue grandi passioni – l'altra è il calcio. Si trova su una Fiat station-wagon in compagnia di Anne-Marie d'Estainville, bellissima ragazza di 17 anni al debutto in società: insieme a lei sta tornando da una festa organizzata dal banchiere ungherese Arpad Plesch. Per lei ha litigato con la sua compagna di allora, Pamela Digby, già ex moglie dell'unico figlio di Winston Churchill. Dopo una scenata di gelosia Gianni Agnelli esce dalla sua villa di Beaulieu insieme ad Anne-Marie, schiaccia a fondo l'acceleratore e sulla statale 98 che collega Nizza a Mentone – chiamata appunto la Basse Corniche – fa un frontale con un furgoncino Lancia su cui sono a bordo quattro macellai, nella più classica delle contrapposizioni tra quelli che si sono già svegliati per andare a lavorare e chi invece non è ancora andato a dormire. Il camioncino viene sbalzato contro una parete di roccia: due dei quattro passeggeri perdono la vita. L'auto è in frantumi. La ragazza esce quasi illesa, soccorsa e portata via prima dell'arrivo della polizia dall'auto di un altro suo amico che aveva partecipato alla festa. Ma l'Avvocato non ne esce indenne: la gamba destra è fratturata in sette punti diversi. Trasportato alla clinica Lutetia di Cannes, finisce sotto i ferri per parecchie ore e l'intervento non riesce bene, tant'è che sarà costretto a nove mesi di immobilità, prima che l'amputazione della gamba venga scongiurata dal professor Achille Dogliotti, fuoriclasse della chirurgia torinese. Come eterno ricordo di quella serata, una menomazione permanente alla gamba che lo costringerà ad aiutarsi sempre più spesso con il bastone – un bastone molto dandy, in pieno stile Agnelli.
Le QUALIFICAZIONI più ASSURDE della STORIA DEL CALCIO ||| 17 novembre 1993
30-08-2022
Le QUALIFICAZIONI più ASSURDE della STORIA DEL CALCIO ||| 17 novembre 1993
17 novembre 1993 Tutto in una notte, l'ultima notte europea di un vecchio calcio, di un vecchio sistema. Prima che l'Unione Sovietica e la Jugoslavia si dividessero in mille frammenti, l'ultima notte della Cecoslovacchia, l'ultima notte di qualificazione a un Mondiale a 24 squadre, con molti meno posti disponibili. La notte che cambierà la vita di almeno cinque persone diverse. DAVID GINOLA SANTIAGO CANIZARES DINO BAGGIO PAUL BODIN DAVIDE GUALTIERI Oltre a quello della Germania campione uscente, l'Europa ha dodici posti: le prime due di ognuno dei sei gironi di qualificazione. L'Europa sta cambiando profondamente: già dall'Europeo 1996 ci saranno molte nazionali in più, la frammentazione della Jugoslavia e dell'Unione Sovietica porterà una quindicina di nuovi Paesi. Qualificazioni strane. La prima europea a qualificarsi aritmeticamente è stata non l'Italia, non la Spagna, non l'Inghilterra, non l'Olanda... ma LA GRECIA, al suo primo Mondiale nella storia. Poi la Russia, che non è più URSS, non ha più la scritta CCCP sulle maglie, ha cambiato bandiera... ma si è qualificata. Poi qualcun'altra alla spicciolata, la Norvegia che è clamorosamente seconda nel ranking FIFA. Una settimana fa è capitato alla Svezia, altra squadra da tenere d'occhio, come tutte quelle del Nord Europa. La sera del 17 novembre 1993 ci sono ancora otto posti da assegnare e sono ancora tante le squadre in ballo: ci sono l'Inghilterra, l'Olanda, il Portogallo, la Francia, la Spagna, il Belgio, i campioni d'Europa della Danimarca... L'ITALIA! Capitolo 1 Inghilterra L'Inghilterra deve seppellire di gol San Marino, vincendo con almeno 7 gol di scarto, e sperare che l'Olanda perda in Polonia: il Daily Mirror ha promesso 10mila sterline (circa 25 milioni di lire) ai polacchi se batteranno l'Olanda. La serata inizia in modo grottesco, con il gol di Davide Gualtieri su sciagurato errore di Stuart Pearce, con gli inglesi che riescono a prendere gol da calcio d'inizio a favore dopo 8,3 secondi, che per 24 anni rimarrà il gol più veloce della storia delle qualificazioni mondiali, battuto da Christian Benteke contro Gibilterra, 8,1 secondi, nel 2017. Quando due anni dopo sarà la Scozia a venire a giocare a San Marino in una partita di Qualificazioni Europee, i tifosi scozzesi indosseranno t-shirt con la scritta “GUALTIERI, EIGHT SECONDS”, e lui stesso verrà coinvolto in infiniti giri di bevute gratis. L'Olanda soffre per un tempo, anche se in Polonia sono molti più gli olandesi che i polacchi, poi è una doppietta di Dennis Bergkamp a chiudere il discorso. L'Inghilterra è fuori da un Mondiale dopo 16 anni. Graham Taylor, il ct famigeratamente noto con l'appellativo di “testa di rapa” presso i tabloid” dopo l'eliminazione ai gironi di Euro 1992, verrà silurato e sostituito da Terry Venables. Capitolo 2 Galles GRUPPO 4 Belgio 14 Romania 13 Cecoslovacchia 12 Galles 12 Belgio-Cecoslovacchia (Bruxelles) Galles-Romania (Cardiff) Cecoslovacchia ha ancora chances? Se vince sì, anche se politicamente non esiste più da Capodanno... Se il Galles batte la Romania di due gol di scarto è dentro, ma è dentro anche con una semplice vittoria se la Cecoslovacchia non vincerà in Belgio: e la partita finirà 0-0. un mix di vecchi giocatori, come Mark Hughes (squalificato), Ian Rush o il portiere Neville Southall, da 10 anni portiere dell'Everton, con la new wave rappresentata da gente come Ryan Giggs o Gary Speed. Tutto il Regno Unito guarda con simpatia al piccolo Galles, che non va ai Mondiali dal 1958 – quando fu eliminato ai quarti dal Brasile, 1-0 gol di Pelé, e ha ricevuto telegrammi di incoraggiamento da Lady Diana, George Best, il primo ministro inglese John Major. Il Galles non perde a Cardiff Arms Park dal 1910. Dean Saunders: “Ho giocato 850 partite nella mia carriera, quella contro la Romania è stata sicuramente la più dolorosa”. Confronto di stili tra il calcio rumeno piuttosto cadenzato, con artisti come Hagi e signori giocatori come Raducioiu, Munteanu (
La partita FANTASMA ||| Cile-URSS 1973
10-08-2022
La partita FANTASMA ||| Cile-URSS 1973
Questa è la storia di un no. Di una serie di no. Missing (1982) di Costa Gavras, con Jack Lemmon e Sissy Spacek – nel cuore della notte di una Santiago desertificata dal coprifuoco, vediamo correre un cavallo bianco inseguito da una camionetta di soldati, una scena assurda e poetica insieme, una specie di quel realismo magico sudamericano, un'atmosfera sospesa in una realtà squallida e disperata. il film racconta la storia del giornalista americano Charles Horman, freelance che viveva in Cile con la moglie, ucciso nei sotterranei dello stadio Nacional di Santiago, il 19 settembre 1973, e sepolto all'interno di un muro Salvador Guillermo Allende Gossens, il primo presidente dichiaratamente marxista a essere stato eletto in uno stato americano, eletto nel 1970 a capo di una coalizione di sinistra. Attira tante simpatie in tutto il mondo, ma il suo è un governo debole fin da principio, soprattutto perché le sue drastiche riforme sociali ed economiche piacciono sempre meno ai potenti del mondo. Soprattutto il programma massiccio di nazionalizzazioni che sottrae al controllo degli investitori esteri – leggi, gli USA – le miniere di rame, una delle principali risorse del Paese. Alle sette del mattino dell’11 settembre 1973 alcune navi della Marina militare cilena occupano il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico, mentre a Santiago le forze aeree e i carri armati dell’esercito fanno scattare l'”Operazione silenzio”, bombardando le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. Alle 8.30 le forze armate dichiarano di aver preso il controllo del Cile. Le guida Augusto Pinochet, che Allende – ritenendolo un militare tutto d’un pezzo e fidato – ha nominato generale capo dell’esercito nemmeno un mese prima. Alle due del pomeriggio è tutto finito: Allende viene rinvenuto senza vita nel suo ufficio, ucciso da alcuni colpi di AK-47, un fucile regalatogli da Fidel Castro, con cui si è sparato due colpi (alla testa?).